Luci e ombre di Volodymyr Zelenskij

Volodymyr Zelenskij, il carismatico presidente dell’Ucraina, è l’uomo del momento. È l’impopolare capo di stato diventato eroe popolare dall’oggi al domani. Ed è anche una sorta di kamikaze che ha più volte tentato di coinvolgere direttamente l’Alleanza Atlantica nel conflitto scoppiato la notte del 24.2.22, ignorando o facendo finta di ignorare le conseguenze che ciò comporterebbe: terza guerra mondiale.

Scrivere e parlare di Zelenskij è più che importante: è fondamentale. Perché è lui che ha guidato la nazione durante il conflitto, rendendo possibile la nascita di una resistenza civile impensabile, e perché è lui che potrebbe essere ricordato dai posteri, qualora giocasse bene il suo mazzo di carte, come l’uomo che ha finalizzato il processo di costruzione dell’identità nazionale ucraina.



Perché ha stupito tutti

Zelenskij è l’uomo del momento per un motivo molto semplice: ha scelto di non fuggire quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina, scegliendo di rimanere in patria pur avendo avuto – e avendo tutt’ora –la possibilità di trovare riparo in Polonia, o comunque nell’Unione Europea, e da lì stabilire un governo in esilio per mezzo del quale coordinare la resistenza antirussa.

Decidendo di rimanere, Zelenskij ha stupito in modo particolare gli ucraini, che hanno trovato in quel presidente che fino al 24 febbraio non era poi così popolare – il contrario –, una figura di riferimento dalla quale trarre ispirazione e, soprattutto, da emulare. La parola d’ordine, rimasto il presidente, è diventata una: resistenza. Resistenza tenace, come si è visto, perché ha rallentato sensibilmente l’avanzata russa e gettato le fondamenta per una possibile guerra irregolare, asimmetrica e di logoramento qualora il Cremlino cercasse di trasformare l’invasione in occupazione.

Lo stesso Vladimir Putin si aspettava una rapida vittoria, stile Georgia 2008, ma ciò non è avvenuto. L’aspettativa era che Zelenskij capitolasse abbastanza in fretta o che fuggisse, come Svetlana Tikhanovskaya in Bielorussia. O come Ashraf Ghani in Afghanistan. Lo scenario capitolazione non si è avverato: Zelenskij è rimasto, ha dato prova di un insospettabile carisma ed è riuscito, peraltro, a convincere un riluttante Occidente a diventare cobelligerante informale nel conflitto.



Popolare o no?

Zelenskij è diventato realmente popolare durante la guerra. Perché poco prima che scoppiasse il conflitto, secondo un sondaggio dell’Istituto internazionale di sociologia di Kiev, soltanto il 30% della popolazione approvava il suo operato e il 23% si diceva disposto a rivotarlo. Percentuali irrisorie, abbassatesi gradatamente, mese dopo mese. Nel giugno 2021, ad esempio, il tasso di approvazione era al 34%.

Caduta libera. Caduta tremenda se si pensa che nel 2019 fu eletto con il 73% dei suffragi – record nella breve storia dell’Ucraina postsovietica. Caduta dovuta alla mancata materializzazione in realtà delle promesse fatte in sede di elezione: fine della guerra nel Donbas, rivitalizzazione dell’economia nazionale, riforma dello stato di diritto, guerra agli oligarchi, lotta alla corruzione. Perché l’Ucraina era durante la presidenza Poroshenko ed è rimasta sotto Zelenskij la nazione d’Europa con il più alto tasso di corruzione (fonte: Transparency International).



Per quanto riguarda la questione Donbas, Zelenskij ha avuto una grave responsabilità, che spiega in parte le origini della guerra del 2022, e cioè l’aver proseguito la «caccia al russo» del predecessore, tramite purghe su larga scala nei mondi politico – 11 i partiti sospesi per presunti legami con il Cremlino nel solo marzo 2022 – e dell’informazione, e l’aver rimandato a data da destinarsi il dibattito sulla concessione dell’autonomia a Donetsk e Lugansk – come da protocolli di Minsk.

Un altro errore piuttosto roboante, che gli ha alienato il consenso di vari partner potenzialmente strategici in Europa, è stato rappresentato dalla mancata revisione della Legge sulla lingua nazionale. Legge che riducendo significativamente il ruolo pubblico delle lingue regionali, non soltanto il russo, ma anche l’ungherese e il rumeno, ha privato l’Ucraina di appoggi importanti in sede Nato e Ue e accentuato le divisioni interetniche all’interno del Paese.

Dalla notte del 24.2.22, però, Zelenskij è diventato il simbolo della resistenza e la bandiera dell’unità nazionale. E lo è diventato perché ha scelto di non fuggire. Una scelta che certamente determinerà il futuro di Zelenskij, che, qualora giocasse bene le sue carte – e molto dipenderà dall’accordo di pace –, potrebbe venire ricordato dalla posterità come colui che è riuscito laddove non avevano avuto successo i predecessori: unire gli ucraini. Un’opinione condivisa da molti analisti e politologi, tra i quali Carlo Jean.

Le ragioni dello “Zelenskij social”

Zelenskij passerà alla storia come il primo leader in tempo di guerra che si è rifugiato nei social network, calmando la popolazione con dirette e messaggi preregistrati e senza mai perdere quel senso dell’umorismo che lo aveva reso il comico più irriverente del Paese.

Coraggioso e pungente, rassicurante e sfrontato, Zelenskij è stato l’autore di una campagna di comunicazione particolarmente efficace, tagliente, inquadrabile all’interno della categoria dello psico-marketing politico. Psicologia, da sempre la migliore amica della propaganda, specialmente in tempi di guerra.

L’effetto della campagna comunicativa di Zelenskij sulle masse è stato dirompente, immediato e tangibile. È plausibile sostenere che una resistenza civile di queste proporzioni, anch’essa molto mediatizzata dalla popolazione, difficilmente si sarebbe manifestata senza il «fattore Zelenskij».



Quando arriverà la pace

La guerra tra Russia e Ucraina è destinata a terminare: non è una questione di se, è una questione di quando e, soprattutto, di come. Il punto è che la pace non la si fa, la si impone. Perché la pace non è che la sottomissione del più debole alla volontà del più forte. E, ora come ora, mancano le condizioni per la pace, perciò sono falliti i tentativi negoziali di Naftali Bennett, Recep Erdogan ed Emmanuel Macron.

Il fatto che i belligeranti abbiano sviluppato una bozza di accordo, comunque, è un ottimo segnale. È una base dalla quale partire. Ma ciò che serve veramente, e che finora è mancato, è il semaforo verde dell’amministrazione Biden al cessate il fuoco. Perché protrarre il conflitto è utile agli Stati Uniti nella maniera in cui li aiuta a stringere la morsa sull’Unione Europea e a logorare una Russia intrappolata nel proprio errore di calcolo.

La pace arriverà: non è questione di se, ma di quando e come. E quando arriverà, anche se a mettere materialmente la firma sul cessate il fuoco, la tregua o la pace, sarà Zelenskij, il vero firmatario sarà Biden. Perché l’Ucraina non è che un satellite orbitante attorno al pianeta Stati Uniti. E questa guerra non è che parte di un brutale negoziato tra Stati Uniti e Russia per la riscrittura ex novo della geografia del potere attuale. Non è che parte di un puzzle più vasto e ancora incompleto: la «terza guerra mondiale a pezzi».