“Okkio al cranio”. I profeti dell’antifascismo tornano ad armare le mani degli utili idioti

Ci risiamo. Ancora una volta nella storia di questa Repubblica, i cattivi maestri al servizio di interessi (economici) superiori, tornano ad agitare nervosamente la bandiera dell’antifascismo militante alimentando un clima di odio e contrapposizione tra l’altro del tutto immotivato. E non solo sui social, come abbiamo visto negli ultimi anni. Ma adesso anche nelle scuole e nelle università dove a ragazzi che, probabilmente, nulla sanno – perché quasi mai arrivano a studiarlo – di Fascismo, Berto Ricci, Italo Balbo e Diritto Corporativo, vengono imbottiti di parole d’ordine dense di odio e allarmi su imminenti rischi per la tenuta democratica del paese, ovviamente immaginari.

In realtà ogni persona dotata di buonsenso e capace di analizzare il reale, sa bene che in Italia vi sono tanti e innumerevoli problemi, fuorché il rischio di una deriva dittatoriale. Men che meno la possibilità della resurrezione del cadavere di Benito Mussolini come visto nella pellicola di Luca Maniero dal titolo “Sono Tornato”.

L’antifascismo militante di oggi è l’esatta copia dell’antifascismo militante che esordì tristemente in Italia nel 1972, ovvero all’indomani della prima, vera, vittoria del Movimento Sociale Italiano alle elezioni politiche di quell’anno. Cosa accadde esattamente? Fino a quella data l’MSI (che nel frattempo aveva accolto al suo interno anche i monarchici e aggiunto alla propria denominazione la dicitura Destra Nazionale) era stato presente in tutte le elezioni di ogni ordine e grado senza mai rappresentare una minaccia, dal punto di vista elettorale e, quindi, democratico per nessuno. Solo nel 1960, quando il partito diede il proprio appoggio esterno al Governo democristiano Tambroni, si registrarono incidenti, in particolare a Genova dove alcuni ex partigiani, paventando un possibile – ma decisamente improbabile -ritorno al tramontato regime, decisero di rispolverare pistole e bastoni per cacciare i missini dalla città dove gli stessi avrebbero voluto celebrare il congresso della fiamma tricolore.

Negli infuocati anni ’70 il partito, sotto la guida di Giorgio Almirante, si presenta agli italiani non solo come alternativo al sistema ma anche come ultimo baluardo per la difesa dell’ordine pubblico ormai quotidianamente compromesso dalle assemblee permanenti nelle scuole, nelle fabbriche e nelle università con le città ostaggio e messe a ferro e fuoco da continui caroselli ed episodi di violenza politica. Alle elezioni, anticipate, del maggio del 1972 il partito arrivò a sfiorare il 9% dei consensi, con punte del 30/40% in alcune città della Calabria e della Sicilia. Un risultato inaccettabile per tutti i partiti del cosiddetto “arco costituzionale” che videro rosicchiato quella egemonia politico-culturale, equamente ripartita tra democristiani, socialisti e comunisti, da un movimento che avevano sempre considerato confinati ai margini e quindi fino ad allora inoffensivo (nei confronti dei loro interessi).

Pochi mesi dopo quel sorprendente e allarmante risultato elettorale, sui muri di molte città italiane fece la sua comparsa lo slogan “MSI fuorilegge”, che ancora oggi dopo 50 anni resiste ad esempio sulla parete della fortezza nuova nella ex roccaforte rossa Livorno. Dai muri si passò a urlarlo nelle piazze: MSI fuorilegge (a morte chi lo paga e lo protegge); infine nelle aule parlamentari con la proposta condivisa da numerosi partiti “istituzionali” di scioglimento del Movimento Sociale Italiano, reo di aver riportato in vita il disciolto partito fascista. E nonostante 30 anni di partecipazione alla vita democratica della nazionale.

Si tratta di un passaggio fondamentale: l’antifascismo militante prende corpo e si fortifica nel momento in cui un partito, l’MSI, con la crescita del democratico consenso attribuitogli dagli elettori va a minacciare le postazioni di potere dei partiti del cosiddetto “arco costituzionale”. E pur di difendere quel potere politico e quella egemonia culturale, che si fondavano, e si fondano, su delicate logiche spartitorie, furono apertamente promosse e sostenute campagne d’odio. Chi non ricorda il celebre slogan “uccidere un fascista non è un reato”?

E tanti ragazzi, etichettati come “fascisti” ma che per ragioni anagrafiche prima ancora che politiche, con il fasciamo non c’entravano assolutamente, furono davvero uccisi, sprangati a colpi di chiave inglese o colpiti a pistolettate da altri coetanei che, imbevuti di odio e intrisi di cattiveria, arrivarono realmente a credere che uccidere un “fascista” non fosse reato, ma addirittura un dovere.

Arrivarono poi gli anni ’80, i processi, le scuse e i piagnistei per i “compagni che hanno sbagliato”. E quando emerse dagli atti giudiziari il reale scenario di guerra civile posto in essere nelle città italiane nel decennio precedente, con un bilancio di morti e feriti a dir poco pauroso e indegno di una Nazione democratica, in tanti si scandalizzarono e preferirono dimenticare quegli anni terribili dove esprimere la propria opinione poteva significare finire dritti all’obitorio.

Lo scorso 25 settembre si è verificato un fatto ancora più eclatante rispetto al 7 maggio del 1972: il partito erede della tradizione Missina, ovvero Fratelli d’Italia, risulta essere il più votato dagli italiani. E riesce addirittura ad esprimere il Presidente del Consiglio dei Ministri. Una vittoria che ha fatto saltare i nervi agli sconfitti, ovvero quei partiti del centrosinistra e della sinistra per la perdita di quell’egemonia culturale di gramsciana memoria, difesa con le unghie e con i denti anche durante la lunga “epopea” dei governi tecnici. Ed allora ecco rispuntare l’arma segreta, il caro, vecchio e intramontabile antifascismo militante.

La parola d’ordine, oggi come ieri, è una sola: chi è sospettato di essere anche solo vicino al partito di maggioranza in Parlamento non ha diritto di parola. Nelle assemblee, nelle piazze, nei dibattiti. Anzi: è giusto combatterlo e zittirlo, perché la matrice è sempre quella la. Fascista.

Accade così che in una calda giornata di ottobre a Roma un gruppo di “studentu” (no, non è un errore, si fanno chiamare proprio così, con il neutro), si organizza per cacciare dalle aule della Sapienza altri studenti appartenenti ad Azione Universitaria (quindi fascisti) e il loro ospite, il giornalista ed ex parlamentare Daniele Capezzone, con un passato nei radicali, ed oggi diventato anch’egli fascista per esserci prestato a dialogare in una pubblica assemblea con altri fascisti. Gli “studentu”, che intervistati da varie emittenti televisive hanno data ampio sfoggio della loro ignoranza e quindi risulta davvero difficile capire come diavolo hanno fatto ad arrivare fino all’università, dopo i tafferugli con la polizia, hanno deciso di occupare ad oltranza alcuni spazi della Sapienza per chiedere la cacciata di poliziotti, fascisti, omofobi, maschilisti e volpi del deserto da tutti gli atenei italiani.

Per gli studentu solo tanta misericordia (una risata vi seppellirà, vi ricorda qualcosa?), per chi li manovra e oggi siede tra i banchi dell’opposizione un severo monito a farla finita e a trovare una vera ragion d’essere.