La società dell’emergenza

In principio l’emergenza era il Covid, poi per un breve lasso di tempo l’emergenza è diventata climatica, adesso ovviamente l’emergenza è la guerra. Sugli aspetti psicologici per la popolazione della continua emergenza si è già detto molto. Il problema è ben evidente: la parte più vulnerabile della società vive con profonde ferite emotive difficilmente arginabili.

C’è però anche un aspetto meramente politico. Una politica che governa in emergenza è una politica che declina ogni responsabilità. É una politica che non decide. O, per meglio dire, decide lavandosene le mani. Non ci sono più piani a lungo termine, non c’è una visione in grado di oltrepassare un lasso di tempo che non sia quello del mese prossimo.

Un tempo, non molti anni fa, si diceva che l’attuale limite della classe dirigente sia in Italia che in Europa era rappresentato dal fatto che i politici guardavano unicamente alle scadenze elettorali e non alle generazioni future. La responsabilità delle misure poco popolari che venivano prese gravava su entità esterne: “Ce lo chiede l’Europa” era una sorta di parola d’ordine trasversale tra le forze politiche. Oggi invece tutto “è richiesto dalle emergenze”.

Passi il Covid, inizialmente in grado di far collassare il sistema sanitario nazionale e dunque opportunamente trattato come emergenza (anche se poi, come spesso capita dalle nostre parti, l’emergenza è diventata normalità e tra misure e isterie varie si è adesso tirata fin troppo la corda), le ultime due emergenze in ordine di tempo appaiono difficili da accettare per chi vorrebbe dalla politica una certa chiarezza.

L’emergenza climatica è stata, negli ultimi mesi specialmente, sbattuta nelle prime pagine di molte testate. Il conto alla rovescia verso la fine del mondo aveva quasi sostituito il bollettino quotidiano con i numeri della pandemia. Un’emergenza, quella climatica, con il quale si è provato a spiegare ai cittadini la necessità di virare immediatamente verso altre forme di energia, verso nuovi piani di approvvigionamento di fonti energetiche.

Poi però è intervenuta un’altra emergenza, quella della guerra in Ucraina. E qui la parola d’ordine è stata un’altra: “Non dipendere più dalla Russia”. Anche se storicamente le sanzioni non hanno mai portato alla pace, esse sono comunque un’opzione politica su cui è possibile discutere. Il problema però è che la corsa verso l’azzeramento dalla dipendenza del gas russo è possibile effettuarla contravvenendo ai principi elencato dall’emergenza precedente, quella climatica.

Non basterà importare gas da altri Paesi per sopperire alla mancanza di gas russo. Occorrerà fare altro. Servirà far arrivare gas liquefatto da oltreoceano e quindi costruire nuovi rigassificatori. Ne sanno qualcosa in Sicilia, dove a Porto Empedocle è stato tirato fuori dal cassetto un progetto che sembrava oramai archiviato da tempo. Il gas liquefatto arriverà con delle navi, le quali certamente non cammineranno negli oceani alimentata ad aria. Sono mezzi che inquinano e che consumano carburante. Ci è stato detto di fare sacrifici e diminuire anche il consumo di energia della vita quotidiana, sono stati erogati soldi per poter tutti acquistare monopattini elettrici e adesso, a cuor leggero, si accetta di far girare per i mari nuove navi inquinanti?

C’è qualcosa che non quadra in tutto questo. Posto che, come detto, la scelta di isolare la Russia è marcatamente politica, ma l’emergenza climatica allora era una balla? La guerra ha improvvisamente cancellato il conto alla rovescia prima della fine del mondo? Possiamo inquinare un po’ di più per attuare una determinata scelta politica?

Chiaro come l’alimentare continue emergenze poi crei disillusione, confusione e disincanto da parte dei cittadini. L’astensione al voto, vista anche in Francia di recente, altro non è che un segnale del sentirsi presi in giro dalle emergenze. Perché allora non eliminare il termine emergenza e parlare più semplicemente di piani?

La transizione ecologica ad esempio serve. Serve tantissimo perché la ricerca tecnologica e i nuovi mezzi a disposizione dell’umanità consentono di affrontare una nuova rivoluzione industriale in grado anche di essere più sostenibile, sia per l’ambiente che (forse) per l’uomo. Ma perché presentarla, a suo tempo, come emergenza? Perché non dire chiaramente che occorre un piano a lungo termine a cui tutti, dalla politica alla scienza, passando per i cittadini, devono collaborare?

Domande che trovano risposta nell’inconsistenza dell’attuale classe dirigente del Vecchio Continente. Nessuno vuole prendersi responsabilità, nessuno ha una qualche vaga idea di dove stia andando il mondo, nessuno vuole sapere cosa accade non appena scade un mandato che, a causa dell’instabilità politica, oggi dura sempre meno. C’è gente in Europa (e soprattutto in Italia) che è ben consapevole di poter guidare un ministero per uno, massimo due o tre anni. E a cui quindi poco importa di intestarsi piani comprendenti investimenti per la prossima metà del secolo.