La fine di un re con un piccolo regno

Senza dubbio la cattura di Matteo Messina Denaro è una notizia più che positiva. Potrebbe indicare, nel futuro corso della storia, una netta cesura tra un prima e un dopo: con il boss di Castelvetrano ancora in giro, c’era ancora un tipo di mafia erede di quella sorta con i corleonesi negli anni ’80 mentre, al contrario, con la primula rossa in galera potrebbe certificarsi il definitivo passaggio a una nuova fase di cosa nostra. Senza più veri “padrini”, lontana da ogni forma organizzativa piramidale e con mandamenti locali e provinciali sempre più “sgretolati”.

Un passaggio per la verità paradossalmente favorito dal comportamento di Messina Denaro. Lui, ultimo degli eredi di Riina e figlio dell’ala stragista di cosa nostra, in questi anni si è soprattutto occupato del suo feudo. Intercettazioni e conversazioni tra gli affiliati, sia a Palermo che in altre zone della Sicilia occidentale, hanno messo in luce una certa insofferenza per il comportamento dell’ultimo latitante. Così lontano dalle dinamiche dell’organizzazione criminale nella sua interezza e così vicino invece unicamente alle dinamiche affaristiche del trapanese.

Del resto, e anche qui entra in gioco un altro paradosso, è la stessa storia di cosa nostra che ha forse impedito a Messina Denaro di pensare a ricostituire una cupola: lui è per l’appunto di Trapani e la mafia è molto attenta alle dinamiche geografiche, per cui mai una primula rossa nata e cresciuta fuori dalla provincia di Palermo si sarebbe potuta permettere di mettere le mani sulla famiglie del capoluogo siciliano. Per farlo, avrebbe dovuto scatenare una guerra non certo conveniente. Un rischio in grado di compromettere i suoi lauti affari nella sua provincia.

E così, quando ha visto lo sgretolamento (grazie ai tanti arresti e, occorre dirlo, a un lavoro importante da parte delle forze dell’ordine dopo il 1992) della cupola palermitana, ha preferito rintanarsi a Castelvetrano e da lì gestire il suo personale impero economico. Fatto di interessi in ogni settore della vita economica trapanese. Dagli appalti all’eolico, dall’edilizia alla grande distribuzione. Affari talmente importanti e remunerativi da potersi permettere anche di “lasciare” altri ambiti, quello della droga o della prostituzione ad esempio, a piccoli gruppi locali oppure alla mafia nigeriana e tunisina. Come dimostra, ad esempio, “l’autonomia” nella gestione di alcune aree di contrabbando da parte di gruppi tunisini scoperta nell’ambito dell’operazione Barbanera del 2019.

Il modus operandi di Messina Denaro era quindi imprenditoriale e affaristico, prima ancora che legato alle sorti di cosa nostra. Ha preferito, come spiegato molto bene da Simone Guida sul canale Nova Lectio, entrare in società con gli imprenditori locali piuttosto che chiedere il pizzo. Emblematico il caso di Grigoli, proprietario di un supermercato di Castelvetrano che si è rivolto al boss dopo un incendio subito nella sua attività. Da allora, l’imprenditore (in galera dal 2007) è diventato il re della grande distribuzione con affari milionari condivisi e spartiti con la cosca trapanese.

Stesso discorso vale per l’eolico e per gli appalti. Chiara quindi la strategia dell’oramai ex primula rossa: gestire gli affari, guadagnare, far guadagnare, ottenere consenso e creare così una vasta rete di connivenze capace non solo di proteggere la sua latitanza, ma anche di garantire gli equilibri interni al mondo malavitoso della sua Castelvetrano e delle zone sotto la sua influenza.

Alla luce di ciò, occorre quindi contestualizzare l’arresto di Messina Denaro. Finalmente è stato consegnato alla giustizia un sanguinario, uno che nel 1992 ha strozzato una ragazza incinta di tre mesi solo perché fidanzata con un affiliato della cosca di Alcamo, uno che non ha avuto scrupoli nel battezzare una stagione di sangue che ha fatto vittime in Sicilia e anche nel resto d’Italia. Inoltre, è stato arrestato l’ultimo superstite di quella stagione stragistica ed è per questo che viene riconosciuto quale ultimo vero boss.

Tuttavia Messina Denaro non ha mai regnato veramente su cosa nostra. Ne è stato, dopo l’arresto di Provenzano e Lo Piccolo, il rappresentante più carismatico, il nome più temuto. Ma non è stato realmente il capo dei capi. Un po’ per scelta e un po’ per necessità, ha coltivato un impero ma lo ha fatto unicamente nel trapanese. Aveva sì lo scettro, in poche parole, ma non è mai stato interessato al governo di cosa nostra.

La sua cattura quindi avrà effetti importanti ma limitati quasi esclusivamente al trapanese. Qui quel reticolato messo in piedi dal boss potrebbe sciogliersi o faticare per trovare nuovi equilibri. Di certo sarà indebolito ed esposto alle nuove operazioni delle forze dell’ordine.

C’è poi da dire che la cosa nostra di Matteo Messina Denaro si presenta molto più debole rispetto a quella di trent’anni fa. Non è più l’organizzazione che con la droga si è presa affari e soldi in tutto il mondo, governata manu militari dai palermitani prima e dai corleonesi poi. Finito il piccolo ma potente emirato di Castelvetrano, in giro rimangono gruppi e groppuscoli con in testa gente di terza e quarta linea, con i massimi vertici oramai morti oppure in galera.

Non vuol dire però che si è vicini a mettere fine alla parola mafia. Cosa nostra, per come la si conosceva, è stata destrutturalizzata e questo già da prima della cattura di Messina Denaro. Ma la mafia potrebbe presentarsi sotto altre forme. In quelle di gruppi di famiglie locali desiderose di mettere le mani su quel poco che è rimasto da spartire. Oppure in quelle di organizzazioni attualmente più potenti e strutturate, come su tutte la ‘Ndrangheta.

L’influenza delle cosche calabresi in Sicilia è già un dato conclamato da alcune operazioni passate. Il vuoto di potere nel mondo criminale, potrebbe agevolare una estensione del loro potere sull’isola. Circostanza che permetterebbe alle ‘ndrine di avere definitivamente le mani su tutto il territorio nazionale, dopo essersi consolidate oramai nella capitale e in diverse regioni del nord Italia.

Alla base poi di ogni analisi sul futuro del mondo criminale in Sicilia, ci sono questioni legate alle attuali condizioni economiche e sociali della terra di Trinacria. La lotta alla mafia e alla mentalità mafiosa, non può che passare anche dal miglioramento dell’economia, dall’uscita dallo stato di arretratezza in cui versano ancora molte aree, dalla demolizione di steccati costituiti da potentati politici e imprenditoriali.

Arrestare un boss, per quanto importante, non è che un piccolo (seppur significativo) tassello all’interno di un vasto mosaico di azioni. La storia è quindi ancora in divenire. E dirà poi il perché di una latitanza così lunga di Messina Denaro e in che modo è avvenuta la sua cattura.