Quel vizio oscuro sulla democrazia degli altri

Westplaining rimane uno dei termini più’ ricercati dell’ultimo anno. Utilizzato come paradigma critico al vizio occidentale di (dover) impartire lezioni e alternative al contesto ucraino, il westplaining non e’ altro che quel benaltrismo camuffato dalle richieste di pensiero critico e pluralismo nella sfera pubblica, e utilizzato da intellettuali e analisti che prima del Febbraio 2022 si occupavano di altro, appunto.

Basterebbe solo riflettere sui continui riferimenti al ritorno della guerra in Europa dopo il 1945, come se i conflitti in Jugoslavia e nelle vecchie periferie socialiste non fossero accadute in Europa, o non fossero affatto dinamiche europee. Amnesie collettive giustificate dalla crisi economica, invero iniziata anni prima l’inizio della guerra in Ucraina nel 2014, e dal rischio di una ulteriore perdita di quei diritti (oramai pochissimi) garantiti dallo stato sociale delle nostre democrazie (il)liberali.

Sono proprio queste ultime ad attirare (giustamente) l’attenzione di coloro i quali santificano imperterriti non solo l’Ucraina ma sull’intera Europa orientale. Come affermerebbe Edward Said e il bastian contrario Massimo Fini, solo l’aggettivo basterebbe a evidenziare quell’oscuro vizio occidentale di autoaffermarsi sull’altra Europa. Una regione, quest’ultima, intesa culturalmente come altro da noi, intrappolata da secoli da stereotipi e incomprensioni all’interno di un oriente allargato a cui prescrivere metodi di intervento per contrastare avversità interne e incapacità endogene di democratizzarsi.

Un’immagine orientalizzante prescritta anche a Paesi come la Serbia e il Kosovo, la Bosnia o il Caucaso musulmano dentro la Federazione Russa, la Georgia e i Paesi Baltici, la Bulgaria o l’Armenia, laddove la democrazia appare conseguenza di machiavellismi e interessi esterni. Mentre i westplainers accusano l’Occidente e le sue “quinte colonne” composte da centri studi, mecenati e organizzazioni piu’ o meno antigovernative, rei di interferire prima, durante e dopo la caduta del Muro di Berlino, l’immagine della “democrazia da esportare” o “esportata” attraverso strategie di marketing ritrova un suo spazio del dibattito pubblico. Un dibattito intossicato da dietrologie e ragionamenti di comodo a cui il cittadino-consumatore appare essersi abituato dopo che gli spazi di partecipazione politica sono stati ridotti a mercato unico con clienti-consumatori dall’identità comune e fluida.

Un “essenzialismo strategico”, direbbe Gayatri Chakravorty Spivak, la cui genealogia si fonda su vecchi complottismi legati, da sempre, alla politica estera. L’Ucraina come l’Iraq, il Donbass come il Kosovo: parallelismi che escludono le agenzie locali di popoli, come quello ucraino e albanese ad esempio, all’interno delle rispettive aree di crisi. Un parallelismo che (ancora una volta!) dimentica, nel caso specifico, la decennale e forzata russificazione culturale del popolo ucraino e l’Holodomor, cosi’ come l’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica, e il massacro di Račak.

Una parallelismo incapace di ricordare (o conoscere?) le tecniche di controllo “al di dentro” la Cortina di Ferro, come se solo l’occidente fosse capace di sostenere in modo strumentale istanze e velleità di democrazia. Lo fece l’Unione Sovietica, dove le classi dirigenti non avevano bisogno di alcun marketing per stringere legami con le future classi dirigenti africane, arabe e asiatiche attraverso opportunità di formazione universitaria (o di indottrinamento?) all’Università Patrice Lumumba di Mosca. Lo fecero i comunisti polacchi capaci di strumentalizzare le proteste dei loro giovani sessantottini in chiave anti-israeliana durante la Guerra dei Sei Giorni, o il regime jugoslavo nel consegnare autonomia al Kosovo nel 1968, riconoscere una sua entità federale nel 1974, solo per calmare l’ira dei giovani albanesi per la profonda crisi economica nel Paese.

Una lunga storia di eventi e attori, a cui potremmo aggiungerne altri, la cui etereogenità viene strumentalizzata dalla convinzione che la democrazia si esporta ai nemici e la si interpreti agli amici. Ergo, una stortura che dimentica (nuovamente!) di come le vecchie classi dirigenti riuscirono anche a riciclarsi, come ricordava Gaspar Miklos Tamas, spazzando via opposizioni e voci critiche sostenute proprio dall’Occidente. Quelle stesse voci di dissenso che, in Ungheria come in Serbia e Bulgaria, vedevano le nuove élite liberali e anticomuniste trasformarsi nei padri fondatori della democrazia illiberale; o dove il funzionamento dei meccanismi democratici venivano mascherati come in Russia, prima di essere rivenduti dal lobbismo delle fondazioni statali come la Russki Mir (letteralmente, “mondo russo”) vicina al Cremlino, degli istituti di cultura cinese, o da una serie di progetti di cooperazione con Paesi tutt’atro che democratici, come l’Azerbaijan di ieri e di oggi.  

Tale etereogeneità dovrebbe anche bastare per confutare l’utilizzo di un singolo paradigma sulla democratizzazione per l’intera Europa orientale. Rimangono invece assai usate le analisi di un’Europa orientale descritta come monolitica, a tratti ancora sovietizzata e regione dell’homo sovieticus, lontana dalle analisi sulla “stabilitocrazia” sui Balcani occidentali di Florian Bieber, o da quelle del costituzionalista americano Stephen Holmes e del politogolo bulgaro Ivan Krastev che parlano di “una luce ormai fioca” in meirto al sogno democratico in Russia, in Polonia e Ungheria, o anche da quelle di Will Kymlicka sulla mancanza di una tradizione costituzionale che garantisca una veloce democratizzazione e un buon funzionamento di quest’ultima.

In quest’altra Europa, quella orientale, disillusa dal multiculturalismo, dal principio di divisione dei poteri e della profonda crisi demografica del Vecchio Continente, il sogno di un destino europeo negato per decenni dai sovietici, come lamentava Milan Kundera, appare infrangersi sugli scogli di una democrazia i cui meccanismi decisionali non sono, come teorizzava Vaclav Havel, nelle mani “dei senza-potere“. Una democrazia tutt’altro che “esportata”, ma auspicata e voluta, nonostante le ingerenze internazionali. Una democrazia anche da esportare, a volte, come quella desiderata da Milos Minic e Zarko Korac, che da Belgrado chiedevano l’intervento internazionale contro le atrocità serbe contro albanesi e musulmani dell’ormai distrutta Jugoslavia.  

Se esportazione vi e’ stata, e’ quella delle speculazioni economiche, delle privatizzazioni neoliberali e del riacuirsi dei conflitti regionali, che allontanano la regione dagli stessi regimi di democrazia. Una condizione che costringe l’Europa orientale a una sua doppia subalternità: dapprima perché assoggettata a una strategia di marketing democratico poca proficua, i cui clienti, forse oggi indesiderati, vengono subito dopo accusati (e autoconvinti) della loro incapacità politica e culturale di democratizzarsi.