Lettera contro la sete di guerra

Una personale lettera contro la guerra. O, meglio ancora, contro la sete di guerra che, tragicamente, si risveglia nelle nostre società e nelle nostre élite. Lavorativamente, tutti i giorni dal 24 febbraio 2022 sono stati scanditi da una costante: scene di guerra, di massacri, di distruzione. Si racconta la guerra, la si vuole studiare per capirne le conseguenze di sistema. Per consigliare chi sulle conseguenze di quella guerra riflette per motivi securitari ed economici, per divulgare e informare, per resistere alla propaganda. Leggere, approfondire, fare OSINT: l’#Ucraina prima, #Gaza adesso. Il nostro estero vicino ha riscoperto la guerra.
E più del duro ritorno della storia alle nostre porte, pesa la consapevolezza che nel mondo che si credeva deputato a un posto speciale nella storia questo cambiamento di rotta stia venendo interpretato nel peggiore dei modi. La banalità o, ancora peggio, la giustificazione degli orrori della guerra perchè, si dice, in fin dei conti è sempre andata così. Ma alla lunga vedere, giorno dopo giorno, quel dolore, quelle tragedie, quegli odii montare fa male. E nonostante tutto bisogna sforzarsi per capire e nuotare controcorrente. Perché, in fin dei conti, studiare la guerra è il miglior modo per esorcizzarla. Ed evitare alle nostre società di percorrere quel cammino da sonnambuli già fatale nel 1914 e nel 1939.
Altrimenti richiamo di perdere consapevolezza dell’ampiezza di queste tragedie. Da troppe parti del mondo non vale, purtroppo, il monito di Giovanni Paolo II, secondo cui la migliore garanzia contro le guerre sono i ricordi dei bambini che le hanno conosciute. Lo sdoganamento sostanziale della legge del taglione, che vediamo al suo apice a Gaza, rischia di annullare questa concezione. Da lontano, sembriamo spettatori inermi. La guerra diventa tifo da stadio. Ma di mezzo c’è la vita umana.
Ricordo quando, a Roma, alcuni mesi fa parlai del senso della guerra con un ex comandante militare americano, alla guida di unità in Iraq e Afghanistan. Non scorderò mai le sue parole quando, in risposta al mio interrogativo su quale fosse la parte più dura della vita di un alto ufficiale, disse: “Sapere che le tue scelte porteranno alla morte delle persone è il condizionamento più forte”. E per persone intendeva amici e nemici. Che nella morte sono, in fin dei conti, tragicamente accomunati. Penso ogni giorno a quelle parole di un ex soldato. Che ci dicono, semplicemente, che la guerra non è un gioco.