Baku e la non-questione palestinese

Gli attacchi di Hamas dello scorso 7 Ottobre hanno riportato la Palestina al centro del dibattito politico internazionale. Alla forte risposta di Israele è seguita quella dei sostenitori della causa palestinese e una maggiore radicalizzazione delle mobilitazioni in Occidente che nei Paesi arabo-musulmani. Decine di piazze europee, dalla Bosnia al Regno Unito, dal Belgio all’Albania, chiedono da settimane il cessate il fuoco e la “liberazione” dei territori palestinesi.

Tra i Paesi a maggioranza musulmana, l’Azerbaijan è l’unico la cui comunità nazionale rimane attonita alla forte risposta militare di Israele contro Hamas e la popolazione civile di Gaza. Molti funzionari azeri hanno invece espresso piena solidarietà alle famiglie delle vittime delle azioni di Hamas, prendendone le distanze da qualsiasi tipo di legittimazione. Una posizione alquanto difficile da criticare ma che cela, dietro la sua più legittima semplicità, l’ennesima contraddizione del Paese caucasico e l’unicità delle sue relazioni internazionali con il mondo musulmano e Israele.

Allo “One Heart for Palestine”, summit organizzato a Istanbul lo scorso novembre, Mehriban Aliyeva, moglie del Presidente Aliyev e figura istituzionale in Azerbaijan, auspicava la conclusione delle ostilità attraverso la soluzione dei due Stati. Una posizione scontata, quest’ultima, che prevedrebbe il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Baku, opzione attualmente rifiutata dalle autorità israeliane.

Nel 2009, la visita in Azerbaigian del Ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki si concluse con l’auspicio che entrambi i Paesi potessero ripristinare la propria integrità territoriale attraverso la cooperazione internazionale. Senza specificare quali confini e con quali alleati ripristinare le rispettive sovranità nazionali, quell’affermazione parve insignificante visti gli accordi che, proprio nello stesso anno, l’Azerbaijan aveva già sancito con Israele. Fu lo stesso Presidente azero Ilham Aliyev, secondo quanto svelato da WikiLeaks, a descrivere il rapporto con Israele come una punta di un iceberg. Sotto la superfice visibile di quest’ultimo, Baku aveva creato un fondo nero di 2,9 miliardi di dollari che,  tra il 2012 e il 2014, fu utilizzato per corrompere politici, giornalisti, legislatori e accademici occidentali affinché potessero ritrarre il Paese come un modello multiculturale e un partner musulmano affidabile per Israele e il popolo ebraico.

Allo stesso tempo, l’Azerbaijan rinforzava ulteriormente la cooperazione in ambito militare con Israele e con una certa politica israeliana, la stessa che nel 2021 confiscava la carta di viaggio di al-Maliki dopo essere ritornato da una riunione presso la Corte Penale Internazionale riguardante le conseguenze giuridiche dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi. Ciononostante, nell’aprile 2018, sempre al-Maliki visitava nuovamente l’Azerbaigian affermando che la Palestina e il popolo palestinese sostenevano l’Azerbaigian nella risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh. Auspicando una soluzione attraverso la giurisprudenza internazionale, il secondo auspicio di al-Maliki seguiva la “Guerra dei Quattro Giorni” del 2016 proprio in Karabakh. In quell’occasione, l’esercito azero aveva dato prova di poter cambiare il destino del decennale conflitto attraverso l’utilizzò degli Harop 36 – oggi celeberrimi “droni kamikaze” – progettato dall’Industria Aerospaziale Israeliana (AIA).

L’infallibilità di quei sistemi di monitoraggio, controllo e attacco a fu lodata anche da Hikmet Hajiyev, consigliere del Presidente azero, Ilham Aliyev, che ne evidenziava la sua potente efficacia militare nella decisiva Seconda Guerra del Karabakh nel 2020. Quella stessa infallibità che garantiva agli israeliana il pieno controllo biopolitico della popolazione palestinese, inspiegabilmente neutralizzata lo scorso 7 Ottobre.

Oggi la non-questione palestinese in Azerbijan pone il Paese a un possibile dilemma: con la Turchia partner geopolitico storico del Paese caucasico e ostile contro Israele, il forte legame politico costruito con quest’ultimo potrebbe infastidire non poco Ankara. Qualora la Turchia dovesse (ri)confermarsi come l’attore regionale ostile proprio di Israele nel lungo periodo, Baku vedrebbe il proprio spazio di manovra restringersi in ambito politico e diplomatico con il partner israeliano.

Di fronte a un possibile aut-aut, la non-questione palestinese in Azerbaijan evidenzia come la forte partnership tra Baku e Ankara rimane solamente centrata sul rapporto tra i due leader, Erdogan e Aliyev, quinid non estranea a contraddizioni ideologiche e possibili crisi. La non-questione palestinese sembra poter incrinare il mito di “Una Nazione, Due Stati”, già incrinato dalla mancanza di un chiaro e forte consenso turco nei confronti di Baku. Come analizza Rahim Rahimov, una certa distonia non si è vista solo all’indomani del 7 Ottobre 2023, bensì precedentemente quando il progetto di rilancio della Via della Seta attraverso una “Via Turca” non prevedeva l’Azerbaijan nel collegamento strategico tra Turchia e i paesi turcichi del Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan in Asia Centrale. Forse una svista piuttosto che una voluta dimenticanza strategica, ma che conferma una chiara mancanza di consenso unilaterale della politica turca nei confronti di quella azera.

Anche l’esponente crescita della retorica antioccidentale di Aliyev, che negli ultimi anni ha colpito principalmente la Francia e le sue “politiche coloniali”, condurrebbe l’Azerbaijan in una posizione alquanto scomoda. Nel momento in cui molti Paesi del Sud Globale criticano fortemente Israele per le operazioni a Gaza, come ad esempio il Sud Africa, la non presa di posizione di Baku a favore della Palestina potrebbe compromettere l’immagine del Paese all’interno della sfera internazionale e del Movimento dei Paesi Non Allineati di cui l’Azerbaijan fa parte. Come già scritto da Bahruz Samadov, che evidenzia come la retorica anticoloniale ha l’unico obiettivo di delegittimare le voci democratiche, le posizioni internazionali di Baku non rappresentano alcuno strumento politico, ma hanno invece solo l’obiettivo di fortificare il potere costituito e negare ogni spazio al dissenso.