La necessità di governare la corsa alla tecnologia

Cloud dati capaci di gestire informazioni inimmaginabili; algoritmi di intelligenza artificiale sempre più potenti e autonomi; supercomputer quantistici in grado di portare la potenza di calcolo a nuovi livelli; infine, la nuova frontiera, a tratti inquietante, del metaverso, doppio digitale e vera e propria Tortuga immateriale pensata dai soloni del Big Tech. La corsa alla tecnologia di ultima generazione è il grande tema della nostra epoca. Ma va governata per essere messa al servizio dell’uomo, delle collettività, dello sviluppo sociale.

Il “baracchino” da cui prende il nome la testata su cui scriviamo era un esempio di tecnologia che, per quanto rudimentale, era in grado di creare comunità e socialità. Oggigiorno, l’innovazione si muove sulla frontiera dell’efficientismo economico ma spesso non dà garanzie di risultati analoghi. La pandemia di Covid-19 ci ha insegnato in questi due anni una lezione che col senno di poi non poteva essere smentita: vero e proprio Giano bifronte, il virus è stato capace di creare, al tempo stesso, più e meno globalizzazione segnalando la nostra dipendenza dalla filiera tecnologica. Da un lato, si sono manifestati i confinamenti, le chiusure dei confini, la destrutturazione delle catene del valore, la velata competizione politica per la conquista di asset biomedicali, farmaci, vaccini. Dall’altro, abbiamo assistito a fenomeni come la diffusione dello smart working, l’ampliamento del traffico internet su scala globale, l’attestazione di una crescente dipendenza delle società dalle reti di telecomunicazione, l’insorgenza di fenomeni di sorveglianza crescente su dati e spostamenti delle persone. Elementi che rafforzano la presa sociale del complesso tecno-finanziario e il peso delle nuove tecnologie, ultima frontiera della globalizzazione.

L’innovazione tecnologica è quel mare impetuoso sulla cui condizione meteorologica non si può dare un giudizio definitivo. Al tempo stesso è il processo che dà ai signori del silicio del big tech un potere d’influenza paragonabile a quello di interi Stati e che permette alla piccola impresa della provincia italiana, che “produce cose belle all’ombra dei campanili” di essere competitiva e alla sua manodopera di evolvere la padronanza di arti e mestieri. Risulta essere l’acceleratore della crescita di nuovi Stati, le start-up nation, e il motore della più aspra competizione globale dell’era presente, quella sino-americana. Al contempo è globale nella narrazione, ma dannatamente nazionale quando dalle tecnologie passiamo alla sfera della partita per il dominio delle tecnologie. Libertaria per narrazione, la tecnologia di frontiera può essere utilizzata a scopi dispotici: il tecno-autoritarismo cinese e le campagne di sorveglianza di massa della NSA lo testimoniano chiaramente.

L’era digitale va consolidandosi come un processo capace di autoalimentarsi e quelli che mancano, ora come ora, sono i grandi critici, le grandi e strutturate riflessioni in grado di coglierne opportunità e rischi in maniera organica.

L’era delle prime rivoluzioni industriali ha avuto, nel Regno Unito, un Charles Dickens intento a raccontarne il prezzo sociale in termini di abiezione e degrado umano degli ultimi, dei dimenticati e degli individui oggetto del processo di sviluppo economico. Oggigiorno, è assente ogni processo critico capace di indagare in profondità i rischi dell’alienazione tecnologica sull’uomo, specie sui più giovani. In Germania, a fine XIX secolo, Otto von Bismarck fu capace pragmaticamente di capire la necessità di evolvere le reti sociali e di welfare per contenere disuguaglianze e malumori sociali. Oggi l’approccio degli Stati è chiaro sul fronte dell’investimento in innovazione e sviluppo, ma altamente regressivo sul fronte dell’adattamento del welfare all’era dell’innovazione di frontiera. Da Karl Marx a José Ortega y Gasset, grandi pensatori si sono interrogati sul futuro delle società dopo l’ascesa dell’uomo-massa dell’era industriale. Nel Novecento, un Charlie Chaplin ha saputo, con il piglio dell’ironia, avvertire sui rischi della standardizzazione dell’era della catena di montaggio attraverso un capolavoro del cinema come Tempi moderni. Karl Polanyi ne La grande trasformazione ha dato strutturazione al pensiero economico e politico riguardante l’impatto di lungo termine dei grandi cambi di paradigma. Oggi, molti intellettuali sono muti o si appiattiscono davanti al tecno-positivismo, rintanati in posizioni defilate o intenti a combattere battaglie di retroguardia mentre l’uomo-massa dell’era tecnologica e gli sconfitti della rivoluzione in atto non trovano ascolto.

Compito dell’informazione è saper mostrare lati positivi e versanti oscuri dei grandi cambiamenti in atto su scala globale. E con questa trattazione vogliamo segnalare la mancanza di riflessioni forti e strutturate sulla grande partita della nostra epoca, a cui si sottraggono solo pochi pensatori appartenenti all’area della dottrina sociale della Chiesa (Paolo Benanti, Luca Peyron) o a versanti illuminati del mondo della Sinistra (Evgeny Morozov, Anna Weiner per fare due esempi) o dell’universo conservatore (il think tank Usa American Compass). Gocce d’acqua nel deserto di un tecno-positivismo o di un neo-luddismo che non aiuta a comprendere appieno il presente. Dalle frequenze di questo baracchino cercheremo di far passare messaggi in controtendenza con questo trend. Parlando di tecnologia, innovazione e futuro avendo in mente chi dovranno essere i veri beneficiari di questi processi: l’uomo e le società contemporanee, non il profitto di pochi colossi industriali e finanziari.