L’inutile conto delle Repubbliche

Si sente parlare già da anni di “terza Repubblica”. Addirittura già dal 2008, quando per la prima (e unica) volta le elezioni hanno consegnato un parlamento non frazionato. C’erano solo due grandi partiti, PdL e Pd, con due partiti “stampella”, rispettivamente Lega e l’Italia dei Valori di Di Pietro. Poi, in mezzo, i superstiti duri a morire dell’Udc. Fine delle coalizioni, fine di un groviglio partitico che nell’era del maggioritario inaugurata dal Mattarellum nel 1994 aveva contraddistinto l’inizio della cosiddetta “seconda Repubblica”.

Poi la politica italiana si è accorta che quel sistema si era eccessivamente semplificato e allora non poteva andare bene. Prima le scissioni interne ai due partiti, poi la caduta dell’ultimo governo Berlusconi e l’arrivo del tecnico Mario Monti hanno nuovamente ingarbugliato tutto. Si è tornati perciò a parlare di terza Repubblica con l’avvento del grillismo e l’ingresso del Movimento Cinque Stelle in parlamento nel 2013. In effetti in quel momento si è inaugurato un sistema “ibrido”: c’erano le coalizioni della prima ora del Mattarellum, ma non c’erano chiare maggioranze parlamentari, come nella prima Repubblica. E infatti il povero Pierluigi Bersani, da vincitore, non ha potuto formare un governo.

Poi ancora, cinque anni più tardi, terza Repubblica è diventata parola d’ordine per descrivere lo “shock” politico della formazione di un governo tra “soli” due partiti e per giunta non molto avvezzi ad essere vertice della piramide istituzionale: l’esecutivo Conte I, retto dall’alleanza Lega-M5S, sembrava potesse spazzare via prima e seconda Repubblica. L’anno dopo questa convinzione è repentinamente naufragata. Il Conte II, formato da M5S e Pd, ha riportato a galla tante dinamiche della prima Repubblica. C’è un presidente del consiglio, Giuseppe Conte, posto come “garante” di un patto tra due schieramenti sullo stile del governo Goria dell’era del pentapartito. C’è un partito, il M5S, divenuto una copia in miniatura della Democrazia Cristiana restando in maggioranza, nella stessa legislatura, con due formazioni diverse. C’è un patto, quello per l’appunto “giallorosso”, che è una mera somma algebrica tra due gruppi parlamentari e non un progetto politico di lungo corso (anche se successivamente l’asse Pd-M5S è stato provato in alcune elezioni locali).

In poche parole, è impossibile stabilire a quale Repubblica siamo arrivati. Se siamo ancora nella seconda, se siamo nella terza oppure se nel frattempo siamo entrati nella quarta senza accorgercene. La verità è che, molto probabilmente, non c’è mai stato un cambio di sistema. Siamo cioè forse nella prima, quella nata con la costituente del 1946. Dal 1994 in poi sono cambiate le leggi elettorali, ma questo non ha mai coinciso con “nuove Repubbliche” o comunque non necessariamente.

All’epoca dell’approvazione del Mattarellum sembrava davvero che qualcosa stesse cambiando. Stavano sparendo, sotto i colpi di tangentopoli, i partiti tradizionali e si era approvata una riforma elettorale in senso maggioritario. Inoltre è stata inserita una legge elettorale per le amministrative che ha compreso l’elezione diretta dei sindaci. Tutto questo era un preludio a riforme costituzionali in realtà mai fatte oppure soltanto accennate.

La rielezione di Mattarella (il padre del Mattarellum) alla presidenza della Repubblica ha dimostrato che la nostra continua a essere una Repubblica parlamentare, perfettamente conforme a quella ideata dai costituenti. Sono le camere alla fine che, seppur azzoppate da anni di commissariamento di fatto (con leggi e scelte approvate a una velocità così forte da far sembrare gli onorevoli dei semplici passacarte) che decidono l’assetto istituzionale. Possono esistere maggioranze più o meno condivise, coalizioni più o meno unite (ma al momento non ci sono nemmeno quelle), ma l’assetto è quello di sempre. Il parlamento accorda la fiducia, il presidente della Repubblica, eletto dal parlamento, nomina il presidente del consiglio e i ministri e, in generale, il sistema predilige gli accordi tra le parti piuttosto che l’emergere di chiare forze di maggioranza.

Inutile quindi continuare a contare. L’Italia, un po’ per scelta, un po’ per necessità e un po’ per incapacità del sistema politico di riformarsi, è la stessa nata nel dopoguerra. E, probabilmente, così resterà ancora a lungo.