Morire per salvare le auto

Quando ho appreso che alcune delle vittime della recente alluvione nelle Marche era rimasta intrappolata nei garage, devo ammettere di aver provato un profondo senso di rabbia. Possibile, mi sono chiesto, che nonostante da anni conviviamo con terremoti e alluvioni la gente appare ancora impreparata nell’affrontare simili eventi?

É ben risaputo che, in caso di pioggia battente e di rischio esondazione dei torrenti, occorre subito trovare riparo nei piani superiori o comunque evitare sottopassi e altri luoghi dove l’acqua nel giro di pochi minuti potrebbe chiudere ogni via di scampo. E invece, per l’appunto, nel bel mezzo di un temporale c’è chi ha pensato di mettere al riparo la macchina. In questo modo c’è chi, oltre ad aver perso un veicolo, ha perso la vita, ha perso il contatto con i propri cari e i propri affetti.

Però in un secondo momento, il pensiero è stato un altro. Come biasimare chi è sceso nei garage? Riflettendoci bene, oggi buona parte delle famiglie italiane è talmente presa dalla paura di non arrivare a fine mese da concepire la perdita della macchina come una tragedia. Magari per mantenere quell’automobile, unico mezzo per poter andare a lavoro, ci si è privati di una vacanza, di uno svago o magari, per pagare bollo, assicurazione, tagliando e revisione, ogni tanto si rinuncia persino a una pizza con amici.

Questo forse è l’elemento più triste della vicenda. Vero che siamo oramai in una società molto materialista, molto attaccata a dei bisogni che prima non c’erano, molto ancorata a quel modus operandi secondo cui un acquisto è in grado di colmare alcuni vuoti interiori. Ma qui c’è dell’altro. Qui non serve scomodare teorie sociali e sociologiche, qui c’è unicamente da parlare di come oggi sia tremendamente difficile per molti andare avanti.

Forse chi ha provato a salvare l’auto non l’ha fatto per attaccamento a quel mezzo. Potrebbe aver pensato a tutti i soldi andati in fumo, a tutti gli investimenti buttati tra roba da pagare e manutenzione e, ultimo ma non ultimo, potrebbe essersi chiesto come poter andare dal giorno seguente al lavoro. C’è un po’ tutto il dramma del vivere quotidiano italiano in quella discesa disperata verso un garage oramai quasi colmo d’acqua e di fango.

Si fa un gran parlare di sostenibilità, di riduzione dei consumi, di cambiamento di stili di vita. Ma la quotidianità concreta è altra cosa. In Italia manca un sistema omogeneo ed efficiente di trasporto pubblico: chi da Milano vuole andare a Roma ha l’imbarazzo della scelta, ma chi da un paesino delle Marche deve raggiungere Ancona o Macerata per lavoro non ha molte altre alternative al mezzo privato. Mezzo peraltro che impatta sempre più sul bilancio familiare, lo stesso reso oggi ancora più sottile dalle bollette sempre più alte e dai costi dei generi di prima necessità sempre più esosi.

Nella corsa disperata in mezzo al fango, che in alcuni casi ha portato alla morte, c’è tutto il dramma dell’ex ceto medio, oggi diventato ceto medio-basso, se non povero. Un ceto dimenticato, ignorato, forse perché ritenuto al riparo con il suo reddito (quasi) assicurato e con la pensione della nonna sempre pronta a rimpinguare i buchi lasciati dalla spesa. Ma è questa la fascia a cui appartiene la maggior parte degli italiani.

E allora l’alluvione nelle Marche insegna tante cose. Ha ricordato, qualora ce ne fosse bisogno, l’estrema vulnerabilità di un territorio italiano sventrato da anni di abusi e di cemento facile. E insegna che c’è una fascia di popolazione terribilmente dimenticata, composta da gente costretta anche a mettere in forse la propria vita per salvare una maledetta automobile.