L’Italia e l’export che fa pensare in grande

Piazza Affari, Milano, 22 giugno: ieri è andata in scena la presentazione del “Rapporto Export” per il 2023 di Sace, una delle meno conosciute e più strategiche appendici economiche dello Stato. Un’occasione importante per parlare di economia vera e di sfide a tutto campo, partendo da un dato fondamentale: non stiamo affondando. Ergo, non dobbiamo piangerci addosso.

Un dato? Quello dell’export previsto per il 2023. Si prevedono 660 miliardi di euro di export, +7% rispetto al 2022. Ci manteniamo tra le prime cinque manifatture della Terra con le irraggiungibili Cina e Germania, la Corea del Sud e il Giappone, con un surplus che supera i 100 miliardi di euro nonostante il caro energia, gli impatti della pandemia, le sfide di un sistema-Paese fragile. Morale? Basta vittimismi. L’Italia non è stata stritolata dalla globalizzazione. La tempesta pandemica non ne ha strappato il sistema economico. La crisi energetica, che ha agito su problemi consolidati, non ci ha travolti. Le sfide hanno rappresentato altrettanto punti di criticità per le imprese, che però la manifattura italiana ha affrontato.

Sace lo riporta, e meritatamente osiamo dire. Questa piccola ma strategica realtà al 100% del Ministero dell’Economia è stata a fianco delle imprese per anni garantendo crediti all’export; ha spinto per l’internazionalizzazione e la conquista, spesso aggressiva, di nuovi mercati: dalle pipeline costruite da Snam alle dighe della WeBuild in Africa, passando per una miriade di Pmi innovative, Sace ha sostenuto operazioni grandi e piccole. Dal 2020 al 2022 ha messo a terra Garanzia Italia, l’anticipazione del Pnrr, il piano di sostegno alla liquidità per la cassa integrazione garantito dallo Stato.

L’Italia ha un tessuto di imprese, piccole e grandi, che hanno cavalcato le sfide della globalizzazione mentre il sistema-Paese, sul piano politico, tremava. Citando Montanelli, il Duemila è stato più grande per gli italiani (nel mercato) che per l’Italia (come potenza).

Occorre tornare a immaginare una politica industriale a tutto campo, magari addirittura in campo europeo, come ha detto a Piazza Affari Federico Freni, sottosegretario leghista all’Economia, per tornare a pensare in grande. Export, innovazione e sviluppo; conquista sistematica di mercati in settori che vadano dalla transizione energetica ai microchip, dall’industria tecnologica alle infrastrutture. Made in Italy vuol dire vino, cibo e enogastronomia, certo. Ma vuol dire soprattutto creatività industriale, innovazione e sviluppo capace di creare lavoro e valore aggiunto. Oltre i provincialismi alla “We Are Meraviglia” e il sovranismo alimentare straccione dei “bollini” per le attività di ristorazione c’è un’Italia che pensa e sogna davvero in grande. E va ascoltata. I dati Sace parlano chiaro. Al governo il compito di ascoltarli. E, sull’onda del reshoring e della ristrutturazione delle catene globali del valore, saper vincere, questa volta anche politicamente, pure la de-globalizzazione.