Le esperienze in guerra: intervista a Paolo Di Giannantonio

L'inviato del Tg1 nei Balcani, in Somalia e nel Golfo spiega aneddoti e curiosità delle sue esperienze maturate nei conflitti

Chi ha seguito le guerre che hanno sconvolto l’ultimo decennio del secolo scorso, ha avuto in Paolo Di Giannantonio un punto di riferimento. Con i microfoni del Tg1 ha coperto tutti i principali conflitti di quegli anni tanto tragici quanto enigmatici: le guerre contro Saddam, le terribili lotte interne al mondo balcanico, i disastri in Somalia. Esperienze professionali e umane ben impresse nella memoria del giornalista, ancora oggi in giro per l’Italia e per il mondo per raccontare curiosità e cambiamenti.

Su IlNuovoBaracchino.it abbiamo avuto l’onore di poter raccogliere, direttamente dalla sua voce, le impressioni ricavate dai conflitti seguiti da vicino. E le similitudini e le differenze con gli eventi dei giorni nostri.

Negli anni ’90 hai visto da vicino le ultime guerre che hanno interessato l’Europa nel XX secolo, quelle cioè dei Balcani. Quali somiglianze e quali differenze noti con il conflitto che attualmente sta interessando l’Ucraina?

Siamo ancora nell’onda lunga della dissoluzione dell’impero sovietico. Ma molto è cambiato. Gli Usa hanno preoccupazioni nell’estremo oriente e, forse, questo ucraino è un colpo di coda di una dirigenza che è molto in avanti negli anni. Mi chiedo: a chi farebbe piacere una Europa che può contare sulla forza tecnologica degli Occidentali e sulla energia e sulle materie prime russe?

Trovo che sia definitivamente evaporata la politica italiana sui Balcani, una volta protagonista. E l’Italia Meloniana vive nella contraddizione di una fedeltà assoluta agli Usa (con Ungheria e Polonia ed i baltici) e di uno scetticismo marcato nei confronti dei cugini tedeschi, francesi e spagnoli ai quali fa la voce grossa ma poi, per problemi di bilancio, deve rivolgere un sorriso forzato. Putin era amico di tutti e oggi è messo all’indice. Eppure la pace (o la tregua) si fa col nemico. Sullo sfondo una guerra che produce migliaia di vittime, disastri economici e un Paese ridotto in macerie.

Sotto il profilo prettamente mediatico, in che modo è cambiata la comunicazione dai fronti di guerra negli ultimi anni?

Mi colpisce la sostanziale indifferenza con la quale l’opinione pubblica europea ed italiana segue la guerra in Ucraina. Siamo passati in pochi mesi dalla paura dell’olocausto nucleare (con accaparramento di zucchero, farina e pastiglie di iodio) al distacco annoiato. Ricordo che all’epoca della Seconda Guerra del Golfo ero in Arabia Saudita, a Dahran, a ridosso del fronte con l’Iraq: lì i supermercati traboccavano di generi di prima necessità mentre in Italia erano stati svuotati.

Qui c’è il problema dell’informazione. Si satura l’opinione pubblica con notizie e resoconti che più che informare vanno a incidere sulla sfera emotiva sia dei singoli sia delle comunità. Ma sono prodotti di consumo, che dopo poco scadono. E si passa appresso ad altra suggestione. Anni fa scrissi per l’Università di Urbino un breve saggio sulla “sociologia dei flussi emotivi” che mi è rivenuta in mente ogni volta che un atto di terrorismo o di guerra veniva raccontato da tv, radio, giornali e social vari. “Siamo in guerra” era il commento generale di gente che la guerra, in realtà, non l’ha mai respirata. Fino a qualche anno fa, poi, il ruolo degli inviati sul campo era molto più importante. Oggi i telefonini con telecamera hanno cambiato tutto e le fake news (già utilizzate ai tempi di Giulio Cesare) sono aumentate a dismisura perché considerate armi di battaglia, efficaci né più né meno come i nuovi droni.

Venendo invece alla tua personale esperienza, qual è la prima guerra che hai seguito? E cosa ti ha spinto a lavorare come inviato di guerra?

La guerra del Golfo. Ci ero arrivato abbastanza velocemente ma per gradi. Da cronista seguii l’attentato di un commando di terroristi palestinesi, nel 1985 a Fiumicino. Da lì passai a interessarmi dell’Olp e del Medio Oriente e quindi le crisi nel Golfo. Percorso naturale. Volevo fare l’inviato speciale e ho avuto la fortuna di farlo a cavallo dei due millenni, quando si è frantumato il mondo diviso in due sfere di influenza. In mezzo mille storie da raccontare.

Importante anche la tua esperienza in Somalia, Paese oggi caduto un po’ nel dimenticatoio nonostante una certa importanza rivestita per l’Italia non molti anni fa: sei più tornato in questo angolo del Corno d’Africa?

Sono stato 4 volte in Somala e tutte e quattro sono un indimenticabili. Pensa: la prima fu con Spadolini ministro della Difesa che chiede se al dittatore Siad Barre di ripristinare l’insegnamento della lingua italiana. Era l’epoca della cooperazione italiana la cui opera si rivelò nefasta. Al tempo di Restore Hope scampai per miracolo ad un attentato che fece 4 morti e diversi feriti. Poco dopo, purtroppo, toccò a Ilaria Alpi e poi a Marcello Palmisano. L’ultima volta ero a Galkaio, nel centro del paese, per un reportage su gruppo terroristico degli al-Shabab, ma dovetti andarmene di corsa perché fui avvertito che mi stavano cercando. Mio fixer era Jusuf Bari Bari, qualche anno dopo divenuto ministro. Purtroppo fu ucciso in un attentato di al-Shabab.

Qual è l’episodio che più ti è rimasto impresso negli anni da inviato di guerra?

Ero in Kosovo, a Pristina. Dovevo intervistare il presidente della Repubblica, Ibrahim Rugova, che avevo conosciuto quand’era in esilio in Italia. Stavamo nel suo ufficio e stavamo per cominciare quando la segretaria irruppe dicendo di guardare la tv, la Cnn. Si videro gli aerei con lite le Twin Towers. Con Rugova ci chiedemmo se fosse un cartone animato. Poi, subito dopo, lo chiamarono i suoi servizi segreti spiegando che era tutto vero. Quell’intervista non la cominciammo nemmeno

In conclusione, una curiosità su un aspetto spesso sottolineato dagli inviati: è vero che, nonostante difficoltà e pericoli vissuti, alla fine un Paese visitato durante la guerra diventa una sorta di “seconda casa”?

Per essere sincero no, non ho mai pensato di avere una “seconda casa”. Ho bei ricordi dei posti in cui sono stato. Persino dell’Afghanistan, dove ho avuto molti problemi. Diciamo che mi sento cittadino di quel mondo dove si verificano quegli avvenimenti che lasciano traccia. Ti permettono di vivere la cronaca ma anche di annusare un po’ di storia. Ecco, in questo luogo che non è fisico mi trovo molto bene