Ucraina in guerra, Balcani in fermento

Gli occhi del mondo sono giustamente puntati sull'Ucraina e gli analisti si interrogano già su cosa potrebbe accadere nel dopoguerra. Negli Stati Uniti, per chiare ragioni, il focus è su Indo-Pacifico e Taiwan. E in Europa, per ragioni altrettanto chiare, dovremmo volgere lo sguardo sui Balcani occidentali.

Era il 1990 quando il giornalista Robert Kaplan, al termine di un lungo viaggio on the road in lungo e in largo i Balcani, dava alle stampe un libro-reportage dal titolo suggestivo, Gli spettri dei Balcani, e dal contenuto profetico, perché preconizzante l’imminente scoppio di un esplosivo processo di disintegrazione della Iugoslavia cagionato da moventi etno-religiosi. Un anno dopo, nel 1991, la secessione della Slovenia dalla Iugoslavia avrebbe dato il via ad un decennio di massacri, guerre civili, terrorismo e piani genocidiari.

Sembra passato un secolo dalle immagini dell’assedio di Sarajevo, del massacro di Srebrenica, del bombardamento di Belgrado, ma la verità è che nei Balcani occidentali l’aria non ha mai smesso di essere elettrica e gli spettri non se ne sono mai andati. Le linee di faglia di ieri sono le stesse di oggi. Le rivalità tra grandi potenze di ieri sono le stesse di oggi. E la «polveriera d’Europa», oggi come ieri, è sempre ad un passo dall’esplosione.

Balcani in fermento

Gli occhi degli analisti di tutto il mondo sono attualmente puntati su due luoghi: Ucraina e Taiwan. L’Ucraina perché il 24.2.22 ha riportato impetuosamente l’Europa nella Storia e determinato l’ingresso della «nuova guerra fredda» in una nuova fase. Taiwan perché, secondo diversi osservatori, quanto accaduto lungo e attorno il Dnipro sarebbe da leggere come un’azione concertata tra Russia e Repubblica Popolare Cinese volta a saggiare le capacità di risposta, l’attitudine volitiva e lo stato di «stanchezza imperiale» degli Stati Uniti. L’Ucraina sarebbe il dito, insomma, e Taiwan la Luna.

L’Unione Europea, per ragioni anche geografiche, dovrebbe fare attenzione a dove posa e poserà lo sguardo, perché dedicare un’eccessiva attenzione ai teatri lontani, distanti, potrebbe significare trascuratezza delle piccole ma pericolose polveriere presenti tra casa e cortile. Polveriere ad alto potenziale esplosivo, come Transnistria, Entità serba di Bosnia e Kosovo, e polveriere a medio potenziale esplosivo, come le regioni autonomiste della «prima Europa», dalla Catalogna alla Corsica, e le remote periferie delle ultime potenze imperiali del Vecchio Continente, ovvero i distretti d’oltremare francesi e britannici.

Transnistria, Entità serba di Bosnia e Kosovo sono i tre teatri che destano preoccupazione maggiore. Perché in questi lembi di terra, che mai hanno messo piede nell’era post-storica, le rivalità (geo)politiche tra le grandi potenze si nutrono di persistenti divisioni etno-religiose, e si stendono su linee di faglia intercivilizzazionali, che rendono dinamitarda la miscela nel calderone.

Occhio al Kosovo!

Della Transnistria abbiamo già avuto modo di discutere, spiegando come e perché potrebbe accendersi e cosa potrebbe accadere qualora il Cremlino decidesse di scongelare questo conflitto a lungo ibernato, perciò questa è la sede ideale per approfondire il caso della «serbosfera» alla riscossa. Il risveglio dei sentimenti secessionistici in Bosnia ed Erzegovina, l’ultimo rimasuglio della defunta Iugoslavia, e la rinnovata tensione in Kosovo, la «provincia perduta» per la quale i serbi non riescono a darsi pace, hanno un comune denominatore, l’identico filo conduttore: i sogni di rinascita imperiale di Aleksandsar Vucic.

La Serbia, in quanto satellite orbitante attorno al pianeta Russia, se e quando effettua operazioni di disturbo nello spazio ex iugoslavo lo fa su mandato del Cremlino. È un modo per destabilizzare uno dei fianchi più deboli dell’Alleanza Atlantica, quello dei Balcani occidentali, e per tenere in vita due questioni, quella kosovara e bosniaca, estremamente utili in caso di drammatico aggravamento della competizione tra grandi potenze.

L’accensione dell’ex Iugoslavia come diversivo, o meglio come salvavita da estrarre ed utilizzare ogniqualvolta la pressione lungo i bordi dell’Impero si avvicina alla soglia critica. L’ex Iugoslavia come piano B. L’ex Iugoslavia come arma da sfoderare per spingere l’Occidente a ripiegare. L’ex Iugoslavia come leva di pressione collegata ai tavoli negoziali di primo piano. Una periferia per un’altra.

Non è una coincidenza che sullo sfondo della guerra in Ucraina, che peraltro è stata accompagnata da una mini-escalazione nel Karabakh avente regia turca, lo spazio ex iugoslavo sia entrato in stato di fibrillazione. Non è una coincidenza e non era imprevedibile: il 7 marzo, prima che tra serbi e kosovari nascesse una nuova crisi, scrivevo di “lasciar perdere Taiwan e di puntare gli occhi sul Kosovo”. E il Kosovo, in effetti, si è acceso due settimane dopo: minoranza serba in subbuglio, movimenti di truppe da Belgrado e dichiarazioni (molto) forti di Vucic.

Cosa potrebbe succedere

I serbi potrebbero tentare il colpo di mano nel prossimo futuro, sapendo di poter contare sulle quinte colonne nelle province settentrionali del Kosovo – la cui efficacia è stata testata l’anno scorso – e sull’afflusso di combattenti volontari provenienti dal vicinato ortodosso, ma un’eventuale operazione dovrebbe avere in primis la benedizione del Cremlino, e ciò dipende da cosa accadrà in Ucraina e da come proseguirà la competizione tra grandi potenze nel dopoguerra, e in secundis dovrebbe poggiare su un piano studiato nei dettagli, perché se l’Ucraina è la linea rossa della Russia il Kosovo è la linea rossa degli Stati Uniti, che ivi gestiscono la loro più grande base militare in territorio europeo: Camp Bondsteel.

Non ha importanza che il Kosovo non sia un membro dell’Alleanza Atlantica, sebbene aspiri a farne parte – prima, però, dovrà ottenere il riconoscimento di quegli stati che continuano a considerarlo provincia ribelle di uno stato sovrano –, gli Stati Uniti non permetteranno mai che venga reinglobato nella Serbia. Perché dall’indipendenza del Kosovo dipende l’intera strategia a stelle e strisce per la penisola balcanica, che ha come pilastri l’accerchiamento della Serbia (funzionale al contenimento della Russia) e il leveraggio del cosiddetto «Triangolo delle Aquile».

Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del 2008 non si torna indietro, lo sanno a Belgrado come lo sanno a Mosca, ma questo non significa che la linea rossa tracciata dall’amministrazione Clinton non possa essere, di tanto in tanto, vandalizzata e calpestata. I disordini dello scorso anno, come avevo scritto all’epoca su Vision and Global Trends, non avrebbero condotto a nessuna guerra, perché trattavasi di un mero test per testare le capacità di Pristina, ma un redde rationem sarà inevitabile in assenza di un accordo di pace risolutivo. Non accadrà oggi, probabilmente, visto che le tensioni di fine marzo e inizio aprile andrebbero contestualizzate nella febbre elettorale della Serbia – al voto il 3 aprile. Ma potrebbe accadere domani.

L’Europa non ha a che un modo di uscire dalla gabbia delle periferie facilmente infiammabili e delle guerre ibernate ad uso e consumo altrui: attivarsi diplomaticamente per trovare una soluzione definitiva a questioni troppo a lungo trascurate.