Dopo l’Ucraina, la Moldavia?

Alcuni segnali sembrano indicare che se la Federazione russa fosse interessata ad aprire un nuovo fronte in Europa, quel fronte potrebbe essere la piccola, povera ma geostrategica Moldavia. Cerchiamo di capire perché e quante siano le possibilità che ciò avvenga.

Tutto secondo copione

Gli scettici, oramai, si aspettano di tutto: lo stesso Emmanuel Macron, del resto, ha invitato gli europei a prepararsi al peggio. Perché la decisione di invadere l’Ucraina ha creato una nuova situazione, ha cambiato le carte in tavola: i limiti sono stati superati, tutto è possibile a questo punto. Vladimir Putin ha passato il Rubicone. E serve un negoziatore di alto livello, come Angela Merkel o comunque del suo calibro, per convincere i belligeranti a stringersi la mano e a deporre le armi.

Nell’attesa che uno dei due belligeranti acquisisca un potere negoziale tale da permettergli di obbligare l’altro ad accettare la pace – perché la pace è sempre qualcosa di imposto dal più forte sul più debole, la si raggiunge solo quando uno dei due non è più in condizioni di nuocere all’altro –, dentro e fuori la Russia sta accadendo qualcosa di prevedibile: il malcontento dilaga. Prevedibile perché, come avevamo preannunciato nell’analisi “Un abbaglio chiamato Ucraina“, Putin avrebbe vinto soltanto in un modo: non invadendo. Invadendo, difatti, è caduto nel tranello di Biden. E gli eventi successivi hanno dato ragione alla nostra previsione:

Speranza-aspettativa di Biden è che l’intervento in Ucraina abbia come esito il rafforzamento dell’Occidente, a mezzo del congelamento di ogni prospettiva di normalizzazione tra Unione Europea e Russia e di una possibile adesione all’Alleanza Atlantica di nuovi membri – come la Finlandia –, e l’indebolimento della russosfera nel medio e lungo termine. Perché il Cremlino con questa guerra emblematizza scenograficamente un ritorno all’età della sovranità limitata che non potrà non avere conseguenze nel resto dello spazio postsovietico, da Minsk a Nur-Sultan, passando per Tbilisi e Baku, ed è su quella russofobia (già oggi) serpeggiante che proverà a lavorare la Casa Bianca: agire nel basso per sovvertire l’alto, o magari soltanto per diffondere dell’altrettanto utile «anarchia produttiva».

Lo spazio postsovietico è in fibrillazione da quando i primi russi sono entrati in Ucraina. Proteste in casa, proteste davanti la porta di casa. Frizioni interne, fragoroso silenzio all’esterno. Chişinău e Tbilisi non hanno perso tempo: qualche giorno dopo l’inizio delle ostilità nel territorio ucraino hanno inoltrato la domanda di adesione ufficiale all’Unione Europea. Non all’Alleanza Atlantica, che avrebbe significato guerra con Mosca, ma all’UE.

Moldavia e Georgia non entreranno subito. Hanno dei conflitti congelati al loro interno – anche se questo non è uno scoglio insormontabile: Cipro insegna – e non soddisfano nessuno dei criteri di adesione. Ma il loro è un messaggio tanto eloquente quanto potere: il tempo stringe, questa è la nostra scelta di campo.

La palla, adesso, passa al Cremlino. Gli strateghi di Putin sbloccheranno i conflitti congelati con cui da anni tengono sotto scacco Moldavia e Georgia? Se lo facessero, e non è da escludere che ciò accada – non oggi, ma domani –, andrebbero incontro alla fine. Vittoria tattica nell’immediato periodo, sconfitta strategica nel medio e lungo termine.

I rischi calcolati (male) di Putin

I popoli dello spazio postsovietico sono in fermento: a Tbilisi si protesta da giorni contro la Russia e persino contro il governo, ritenuto troppo “cauto” nella questione sanzioni, mentre l’intero territorio della Federazione è attraversato da maxi-dimostrazioni antiguerra da quando è scoppiato il conflitto. L’UE ha acconsentito all’introduzione di sanzioni economico-finanziarie senza precedenti, sullo sfondo dello spegnimento del Nord Stream 2 e dalla campagna di disinvestimenti in corso. E stati storicamente neutrali, come Svezia e Finlandia, hanno iniziato a ponderare il loro ingresso nell’Alleanza Atlantica.

Tutto procede secondo copione. Perché trattasi di eventi, quelli di cui sopra, che avevamo pronosticato all’alba dell’invasione dell’Ucraina. Se quello di Putin era un rischio calcolato, è stato calcolato piuttosto male. Questo accade quando le emozioni prevalgono sul raziocinio. E la conseguenza, a meno di inversioni di tendenza repentine e imprevedibili, sarà una probabile vittoria tattica seguita da sconfitta strategica.

Il Cremlino ha un solo modo di evitare che lo scenario della sconfitta strategica prenda forma: negoziare, trovare un compromesso, accordarsi sottobanco con la diplomazia segreta. Il rischio, altrimenti, è che ne risenta lo stesso sistema putiniano, la cui solidità è destinata a sperimentare uno stress test senza precedenti a causa di dissidi intestini, divergenze di vedute e pressioni dei magnati.

Il fattore transnistriano

La Transnistria è un lembo di terra incuneato tra Moldavia e Ucraina, che de iure è appartenente alla prima ma de facto è indipendente dal 1990. Qui non si parla rumeno, ma russo. Qui non si utilizzano i caratteri latini, ma cirillici. E il tempo sembra essersi fermato all’epoca sovietica, che per i transnistriani non sembra essere finita.

La Transnistria è quello che si definisce uno stato a riconoscimento limitato, in quanto riconosciuto da una manciata di altri stati fantoccio eteroguidati dal Cremlino – Abcasia, Artsakh e Ossezia del Sud –, e ospita sul proprio territorio un piccolo contingente russo in funzione di mantenimento della pace sin dai primi anni Novanta.

Un filo rosso lega la Transnistria al Donbas e alle repubbliche separatiste della Georgia: sono territori artificiosamente mantenuti dal Cremlino in stato di belligeranza passiva, o a bassa intensità, allo scopo di rallentare o impedire l’inglobamento nella sfera di influenza occidentale degli stati all’interno dei quali giaciono. Georgia e Ucraina hanno sperimentato il potenziale dei conflitti congelati, la prima nel 2008 e la seconda dal 2014, e la Moldavia, da inizio anno, teme che l’antica disputa sia sul punto di schiudersi.

Non è detto che la Federazione russa abbia intenzione di accendere la Transnistria, perlomeno non adesso, ma alcuni elementi depongono a favore dei timori della classe dirigente moldava:

  • Le tensioni tra Chişinău e Tiraspol sono andate crescendo progressivamente da quando alla presidenza della prima, nel 2020, si è insediata l’europeista Maia Sandu;
  • Il Cremlino ha rifiutato di ottemperare alle richieste della Sandu circa il ritiro del contingente stanziato in Transnistria – composto da circa 1.500 soldati;
  • Aleksandr Lukashenko, a inizio marzo, avrebbe svelato inconsapevolmente una delle opzioni sul tavolo prese in considerazione dal Cremlino: creare un tutt’uno dalla Transnistria alla Novorossiya attraverso l’occupazione della fascia costiera ucraina, da Odessa alla Zaporiggia;
  • A inizio febbraio ha avuto luogo un’esercitazione militare congiunta, coinvolgente personale militare russo e transnistriano, sulla quale è stato posto il più grande riserbo da parte di Mosca: nessun dettaglio sulla durata, nessun dettaglio sui livelli di partecipazione;
  • A metà febbraio, in seguito alle manovre russe in loco e all’aggravarsi della situazione in Ucraina, gli Stati Uniti hanno emanato un’ordine di evacuazione diretto ai loro cittadini in Transnistria;
  • Il 21 febbraio, secondo quanto riportato dalle autorità moldave, una delegazione transnistriana sarebbe volata a Mosca per persuadere il Cremlino a riconoscerne la statualità – richiesta a gran voce sin dal 2006, anno di un referendum popolare terminato col 98% dei votanti a favore di una possibile amalgamazione con la Russia;
  • Un terzo dei transnistriani è di etnia russa, e quasi la metà della popolazione ha il passaporto russo, e le autorità moldave temono che la «dottrina delle minoranze» del Cremlino possa condurre, un giorno, all’esplosione di un conflitto locale in stile Ucraina o in stile Georgia;
  • Il 4 marzo, reagendo alla candidatura all’UE formulata dalla Moldavia, i governanti transnistriani hanno avanzato una formale richiesta di riconoscimento legale della statualità della Transnistria.

Transnistria, punto di non ritorno

Dall’impasse ucraina si può ancora uscire, magari con il supporto di cinesi e americani – entrambi preoccupati dall’internazionalizzazione del conflitto –, ma l’esplosione della bomba moldava provocherebbe danni irreparabili. Quale pretesto avrebbe il Cremlino? Contro quali presunti crimini di guerra agirebbe? Quale genocidio è in corso in Transnistria? Un intervento in Transnistria potrebbe avere luogo a seguito di una sola circostanza: un’operazione sotto falsa bandiera contro il contingente in loco, contro la popolazione russofona o contro obiettivi russi in loco – Mosca ha un consolato a Tiraspol.

Come già accaduto in Ucraina, però, la Russia dovrebbe porsi delle domande e dare loro una risposta. In che modo sarebbero accolti gli invasori dalla popolazione – che è pluralistica, in quanto composta da rumeni, gagauzi e altre etnie? Quali reazioni susciterebbe l’apertura di questo fronte nel resto dello spazio postsovietico? Quale sarebbe la risposta della triade Stati Uniti-UE-Nato? Il ritorno di fiamma, in sintesi, sarebbe catastrofico.

L’apertura di una nuova trincea nel cuore d’Europa, a scanso di equivoci, è – per ora – remota. Un rischio esiste, perché il Rubicone è stato passato, ma al momento è basso. Anche perché la Moldavia, contrariamente all’Ucraina, non costituisce una «linea rossa» per il Cremlino; è, tutt’al più, un luogo utile a esperire delle «operazioni di disturbo» ai danni di UE e Alleanza Atlantica.

Trovare una soluzione definitiva alla questione transnistriana è, però, nell’interesse dell’UE. Agire adesso equivale ad impedire che un cumulo di neve si trasformi in una valanga. Agire adesso significa prendere atto della crescente georilevanza delle «terre dimenticate» nel contesto della nuova guerra fredda – entrata, da tempo, nella fase delle «periferie al centro».

Il Cremlino chiede, o meglio esige, una ristrutturazione ex novo dell’architettura securitaria europea, nonché un ritorno all’età delle sfere di influenza, e invadendo ha dimostrato che il tempo della «diplomazia a tutti i costi» è alle spalle. La Moldavia, in questo contesto, ha ragione di essere preoccupata, perché, parimenti all’Ucraina, fluttua nel limbo della sospensione tra i blocchi in quanto né totalmente sotto influenza russa né pienamente integrata nel mondo occidentale – e questo la rende tanto vulnerabile a eventuali aggressioni del Cremlino quanto indifendibile dal duo Washington-Bruxelles.

In Moldavia, prima o poi, i nodi arriveranno al pattine. L’UE prenda atto della possibilità di uno scenario ucraino in Moldavia e cominci a formulare un piano di prevenzione e una strategia d’azione.