La crisi in Ucraina e la fine del sogno della Grande Eurasia

La sera del 21 febbraio 2022, data già entrata nei libri di storia, ha avuto luogo qualcosa di storico: Vladimir Putin, al termine di un lungo discorso alla nazione trasmesso in mondovisione in varie parti del globo, ha proceduto a riconoscere formalmente le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, le due colonne portanti di quella regione dell’Ucraina orientale nota al volgo come Donbas, elevando notevolmente il livello dello scontro con gli Stati Uniti.

Il riconoscimento del diritto all’esistenza della Novorossiya, negato dal Cremlino per ben otto anni, ha sancito il superamento definitivo del formato Normandia e del relativo proposito di risoluzione diplomatica alla questione Donbas rappresentato dal protocollo di Minsk, che, parola di Putin, «non esiste più».

Quanto è accaduto era tanto prevedibile quanto (in)evitabile: l’imponente prova di forza del Cremlino non aveva impressionato l’amministrazione Biden, i tentativi di intermediazione di Emmanuel Macron non avevano avuto successo – complice la disunità intra-europea e i sabotaggi angloamericani –, la ritirata di quell’imponente «armata di pressione» senza aver strappato neanche una concessione dalla Casa Bianca non era praticabile.

Il punto di questo commento è un altro: il rischio di non comprendere le potenziali e probabili implicazioni del dopo-21 febbraio è concreto, tangibile, elevato. Perché per molti, anche se non per tutti, il destino dell’Ucraina è l’unica ragione alla base di questa crisi. Ma non è e non è mai stato così.

La posta in gioco

L’arrivo delle forze armate russe nel territorio ucraino ha aperto nuovi scenari, molto più cupi di quelli prospettati fino a metà febbraio. Perché il rischio di una guerra aperta tra i due Paesi, fino all’altroieri molto basso – perché l’obiettivo del Cremlino era la negoziazione con la Casa Bianca agitando lo spettro dell’invasione del Marinskij –, dalla sera del 21 febbraio è diventato improvvisamente alto.

Nei fatti cambia poco, perché Putin ha dato legittimità de jure ad una condizione de facto – cioè l’appartenenza del Donbas alla Russia dal 2014 –, eppure le implicazioni sono molteplici. La presidenza Zelenskij tenterà di recuperare la Nuova Russia, magari tentando l’azzardo anche sulla Crimea, o ne considererà l’indipendenza come un fatto compiuto? Reagire comporta il rischio di provocare una guerra aperta e su larga scala con la Russia, che gli ucraini perderebbero certamente. Non reagire equivale a correre un altro rischio: dimostrazioni antigovernative da parte di un’opinione pubblica adirata perché impaurita e bisognosa di rassicurazioni, con annessa la possibilità che qualcuno strumentalizzi il malcontento allo scopo di creare dell’«anarchia produttiva», di tentare il colpo di mano o, peggio, lavorare ad un’ulteriore frammentazione su base etnica dell’Ucraina – attenzione a cosa accadrà tra Odessa, Kharkiv e Zaporiggia.

Potrebbe succedere di tutto come potrebbe non succedere nulla. Guardare a Kiev, del resto, significa fissare gli occhi sul dito, quando la Luna è da tutt’altra parte: al di là dell’Atlantico. Il Cremlino, difatti, non ha mai nascosto di aver scommesso sulla destabilizzazione dell’Ucraina con l’obiettivo di parlare con gli Stati Uniti. Parlare a nuora affinché suocera intenda. E alla suocera, in questo caso, i russi chiedono il ritorno all’età delle sfere di influenza e il ripensamento dell’architettura securitaria euroatlantica, cioè una Jalta 2.0.

Due crisi, stesso motivo

Il Cremlino si era assunto un rischio calcolato anche nel 2021, tra marzo e maggio, circondando l’Ucraina con una forza di simili dimensioni. Con la differenza che l’escalazione gestita, all’epoca, aveva avuto come esito la bilaterale di Ginevra. Si era discusso di linee rosse, stabilità strategica e pace tattica – ovvero di tregua temporanea tra Stati Uniti e Russia funzionale a permettere ai primi di dedicarsi interamente all’Indo-Pacifico –, ma, evidentemente e prevedibilmente, qualcosa non ha funzionato.

Su InsideOver, commentando quel vertice, mi ero chiesto: ma a Putin conviene un’intesa cordiale con Biden? Mi ero dato come risposta un laconico no. Il motivo per cui si è arrivati alla crisi di febbraio 2022, con la mossa del riconoscimento della Nuova Russia, è che è fallita la bilaterale dell’anno precedente. Ed è fallita perché, come scrissi all’epoca:

Il punto di cui a Washington potrebbero non aver colto pienamente la complessità è il seguente: perché il Cremlino dovrebbe accettare la proposta di tregua tattica avanzata dalla Casa Bianca, corredata di piccoli olocausti, pur sapendo che ciò comporterebbe la fine delle proprie aspirazioni multipolari e, soprattutto, il barattamento di un’intesa funzionante (quella con Pechino) per una (quella con l’Occidente) che, più volte nella storia, si è (di)mostrata inattendibile, facile al naufragio e intrinsecamente votata all’implosione?
Se è vero che gli Stati Uniti hanno bisogno della Russia per frenare la Cina, lo è altrettanto che la Russia ha bisogno della Cina per sveltire il ritmo del declino degli Stati Uniti; questo è il motivo per cui offrire una fugace pace fredda e agitare il “pericolo giallo”, particolarmente percepito e radicato a levante degli Urali, potrebbe non bastare.
La Russia, inoltre, non chiede e neanche desidera un cessate il fuoco, ma esige – e gli Stati Uniti ne sono a conoscenza – che venga rispettato il proprio spazio vitale, corrispondente al mondo postsovietico e bersaglio di pressioni costanti e crescenti dal dopo-guerra fredda ad oggi, e che le venga riconosciuto un ruolo da comprimaria nella gestione della comunità internazionale.
Ultimo ma non meno importante, le grandi potenze non sono titolari di formae mentis da burattino, ma da burattinaio, perciò l’avance di Biden potrebbe fallire: alla Russia, più che un allineamento, andrebbe chiesto un non allineamento e, non meno importante, ne andrebbero ascoltati gli interessi e i timori.

Nel monologo che ha fatto da preambolo al riconoscimento della statualità di Lugansk e Donetsk erano contenuti, uno ad uno, tutti gli elementi menzionati in quel pronostico di InsideOver: altolà a ulteriori espansioni dell’Alleanza Atlantica ad est, frustrazione per le coltellate alla schiena ricevute durante la «grande distensione» della prima parte dell’era Putin, ira per le richieste rimaste inascoltate, per i timori derisi e per gli interessi ritenuti irrilevanti. Sì, febbraio 2022 è il capolinea di un (lungo) percorso di cui giugno 2021 era stato la penultima fermata.

Bye bye Lisbona-Vladivostok

È esistito un tempo in cui Putin guardava a Occidente, proprio come il suo idolo – Pietro il Grande –, parlando di costruire un’Europa estesa da Lisbona a Vladivostok, discutendo con George Bush Jr di maggiore collaborazione tra Russia e Alleanza Atlantica e firmando con l’Unione Europea un accordo sullo spazio comune. Ma quel tempo è finito, collassando poco a poco – tra una rivoluzione colorata e un cambio di regime –, e la pietra tombale è stata posata la sera del 21 febbraio 2022.

L’entità delle sanzioni che verranno adottate da Unione Europea e Stati Uniti determinerà le dimensioni del ripiegamento della Federazione russa verso Oriente, in particolare nell’Impero celeste, e comporterà simultaneamente un disaccoppiamento tra le due Europe. Questo è il motivo per cui Biden non ha mai ceduto: sperava che Putin perdesse la pazienza, commettendo il passo falso – mettere piede in Ucraina –, così da avere il pretesto per spegnere il Nord Stream 2 – prima pedina a cadere – e allontanare lo spettro del disgelo tra i 27 e la Russia.

Una trappola mefistofelicamente geniale, quella di Biden, di cui Macron aveva intuito la finalità antieuropea con largo anticipo sul resto dei colleghi e che lo aveva incoraggiato, sin dai primordi della crisi, a tentare il tutto per tutto per impedirne la concretizzazione. Nessuno più di Macron aveva dialogato con Putin. Nessuno più di Macron aveva provato a mediare con entrambe le parti. E nessuno, oltre Macron, aveva avuto l’impavidità di parlare esplicitamente di «finlandizzazione» per l’Ucraina. Sforzo encomiabile, ma uno a zero per gli Stati Uniti.

Il dato è tratto. Putin ha passato il Rubicone. La tratta Lisbona-Vladivostok ha smesso di operare. Ma per la Russia non è un problema: c’è sempre la K3/4, cioè la Mosca-Pechino.