L’innovazione o è al servizio dell’uomo o non è tale

Nell’ottica aziendale la svolta tecnologica e il ruolo sempre più pervasivo dell’innovazione sono realtà oramai consolidate. Troppo spesso, tuttavia, il discorso dell’utilizzo “sostenibile” delle nuove tecnologie è sottovalutato nell’economia dei processi aziendali o è vincolato unicamente all’impatto più o meno “verde” di certe tecnologie [1], mentre mancano i lavori capaci di guardare il quadro a livello più complessivo [2].

La svolta digitale, l’ascesa delle nuove tecnologie nel processo produttivo e aziendale e lo sviluppo di un nuovo rapporto tra lavoratori e innovazione si prefigurano come fenomeni a trecentosessanta gradi e ogni azienda, di qualsiasi dimensione, deve pensare a come sviluppare un adeguato approccio culturale a tali sviluppi. Una cultura della tecnologia è una competenza trasversale richiesta in ogni organizzazione in cui nuovi paradigmi si sviluppano e altri tramontano, a patto che sia una cultura a servizio del lavoro e dell’uomo.

Alcuni dei maggiori studiosi della tecnologia, tra cui ci permettiamo di citare l’esperto di intelligenza artificiale e frate francescano Paolo Benanti [3], hanno posto la questione nei termini di mantenimento del controllo dell’uomo sulla macchina e la tecnologia. Non è infatti un caso che tra i maggiori filoni di pensiero economico sia stata la dottrina sociale cristiana, sempre attenta a portare i progressi economici a servizio dell’uomo e capace di sviluppare un vero e proprio “umanesimo integrale” sulla scia dell’elaborazione sopraggiunta sotto Paolo VI, Giovanni Paolo IIBenedetto XVI e Francesco. Di cui pensatori come Benanti seguono l’onda, portando il ragionamento sul piano dell’innovazione di frontiera.

In sostanza, l’innovazione ha la necessità di essere inserita al servizio dell’uomo, del suo lavoro (a qualsiasi livello) come sostegno imprescindibile ma non come suo sostituto. Con un gergo tratto dal comparto aziendale, potremmo parlare di kaizen [4], “miglioramento continuo” dei processi aziendali e del rapporto tra uomo e struttura aziendale come obiettivo di un’innovazione pienamente sostenibile. Questo perché la tecnologia abbraccia oramai larga parte dei processi aziendali, e la sua introduzione apre una serie di questioni di fondamentale rilevanza:

  • Quali sono le tecnologie maggiormente funzionali per ciascuna posizione e quali possono comporre un “nocciolo duro” trasversale per tutti gli appartenenti all’organizzazione?
  • Come favorire la complementarietà umana, produttiva e tecnologica tra figure aziendali appartenenti ad aree diverse?
  • Come sfruttare le nuove tecnologie per favorire il rapporto tra la persona e il luogo di lavoro?
  • Come ottimizzare la gestione e lo sfruttamento dei dati acquisiti dall’azienda nel corso delle sue attività?

Tutto questo implica una chiave di lettura nell’ottica del cosiddetto “total quality management”: una gestione organica dell’innovazione che risponda a questi fattori può ottenere il triplice obiettivo di rendere l’organizzazione più coesa al suo interno, aumentare la consapevolezza e il legame del dipendente o del manager con l’azienda e rafforzare anche l’efficienza della società di fronte ai clienti e agli altri stakeholder. Questo, a nostro avviso, significa muoversi in modo sostenibile nel rapporto con l’innovazione.

Per rispondere alle prime due domande, è necessario riflettere in maniera organica. Il management di domani dovrà saper governare un ampio spettro di tecnologie, tra cui le maggiormente essenziali sono senz’altro gli strumenti di comunicazione multilivello, gli spazi virtuali di condivisione dei lavori in-cloud, gli strumenti di business intelligence e, ultima ma non per importanza, gli apparati di cybersicurezza.

Risulta fondamentale, in quest’ottica, pensare la tecnologia in funzione dell’uomo e non viceversa: vincolare posizioni aziendali a pratiche come il data entry, ad esempio, è un ricorrente errore del rapporto tra azienda e digitale da evitare per preservare i lavoratori da alienazione, straniamento e assenza di identificazione con la propria società.

Il fattore umano, ovvero la percezione del ruolo aziendale del lavoratore e la valorizzazione di conoscenze e competenze, deve essere centrale nel discorso, e chiaramente ciò assume sfumature differenti a seconda che esso si espleti in aziende di diversa taglia. Nelle grandi aziende, assume maggiore valore il discorso sulla complementarietà tra aree e rami diversi, dalla logistica alla finanza, in termini di cultura operativa e strategia day-by-day.

Sul ramo prettamente operativo, le tecnologie consentono anche un utilizzo razionalizzato dei meccanismi di smart working: l’attuale emergenza pandemica ha reso sempre più evidenti l’imprescindibilità di canali operativi di questo tipo. Al contempo, lo smart working e il telelavoro pongono in potenza problemi diversi da quelli di matrice operativa ed economica che aiutano a risolvere (costo degli spazi, costo di trasporto per il lavoratore e così via), come ad esempio la potenziale alienazione del lavoratore legata all’identificazione eccessiva tra dimora e posto di lavoro. Un management che voglia introdurre una reale cultura della sostenibilità digitale deve ben ponderare il ritmo e l’incidenza dello smart working nel complesso del rapporto tra dipendenti e azienda.

Veniamo infine ai dati: essi rappresentano, secondo l’Economist, il “petrolio del XXI secolo”. Ma così come il petrolio serve alla raffinazione per produrre beni spendibili nell’economia anche i dati necessitano di essere “raffinati” e resi fruibili al processo aziendale. Nel quadro di un’impresa veramente sostenibile non si può prescindere da strumenti di business intelligence e data mining rivolti non solo al miglioramento delle performance nell’ecosistema operativo ma anche alla valutazione degli equilibri interni all’azienda. Il processo decisionale poggia con forza sugli strumenti di business intelligence e anche nell’ottica dell’adesione dell’impresa a parametri riguardanti gli obiettivi di sostenibilità definiti in chiave internazionale.

Concludendo, è dunque vitale per un’impresa formare una cultura interna dell’innovazione funzionale ai suoi bisogni. Per poterla governare e incanalare con successo nei suoi processi. Per rendere le nuove tecnologie performanti e trasversali. Per avvicinare management e dipendenti e, soprattutto, per ricordare a lavoratori e interlocutori che il centro dell’attività economica è e rimane sempre l’uomo, nella sua figura di lavoratore. Il vero obiettivo della sostenibilità, in fin dei conti, è ribadire con forza questo principio.

[1] Sul tema un ottimo lavoro rimane il seguente: David Kiron, Gregory Unruh, The Convergence of Digitalization and Sustainability, MIT Sloan Review, 10 gennaio 2018.

[2] Invero anche sul tema non mancano contenuti degni di nota e molto interessanti: si veda ad esempio il saggio di Stefano Epifani, advisor per l’Onu sugli impatti della digital transformation e presidente del Digital Transformation Institute, Sostenibilità digitale, edito dal Dti nel 2020.

[3] Suo il fondamentale saggio Le macchine sapienti sugli effetti di lungo corso del cambio di paradigma tecnologico in cui la riflessione parte da una domanda fondamentale sotto il piano economico, sociale ed etico: “Che cosa accade quando non son gli umani, ma le macchine a prendere le decisioni?”.

[4] Unione delle parole giapponesi kai (“miglioramento”) e “zen” (continuo), indica la filosofia aziendale sviluppata da gruppi come la Toyota per ottenere una graduale riduzione dei costi nei processi aziendali.