Cosa mi ha lasciato Benedetto XVI

Prendo in prestito una frase che l’amico Lorenzo Vita ha scritto su Facebook nei giorni scorsi: “Non amo parlare dei miei sentimenti più profondi sui social, ma per Ratzinger faccio un’eccezione”. E anche il sottoscritto, in questo caso e in questo articolo, fa un’eccezione. Papa Benedetto XVI ha rappresentato (e rappresenta) un tassello importante nel mio percorso.

Fin qui non c’è una notizia, essendo quest’ultima considerazione esclusivamente privata e personale. La notizia arriva però quando mi accorgo che non sono il solo a pensarla in questa maniera. Ci sono molti miei coetanei, più di quanto potessi aspettarmi, che avvertono la mia stessa sensazione. E credo di avere in comune con loro lo stesso percorso. Un percorso prima di allontanamento e poi di avvicinamento alla figura del teologo tedesco.

Come molti della mia età, al momento dell’elezione di Benedetto XVI ho nutrito forti perplessità. Avevo 15 anni ed essendo il 2005 ero, tra le altre cose, figlio diretto degli anni ’90 da poco trascorsi. Anni in cui la velocità dei media ha iniziato a essere ben evidente, riuscendo a mettere in moto i pensieri più “accattivanti” o dall’applauso più facile. Anni dove a una società più complessa non ha corrisposto un’opinione pubblica più attenta ma, al contrario, pronta a seguire l’onda di pensiero “vincente”.

E il pensiero vincente raffigurava (non a torto) una Chiesa tutt’altro che trasparente. Tuttavia, quel tipo di pensiero ha fuso due concetti differenti: la critica all’attuale situazione interna alla Chiesa e la critica al pensiero religioso a 360 gradi. Quindi anche per me il Vaticano ha raffigurato in quegli anni una sorta di ostacolo alla modernità, un oggetto vetusto e costoso da archiviare. Con la religione vista quale elemento da allontanare dalla quotidianità. Circostanza comune a gran parte dei miei coetanei. In questo senso, Ratzinger assieme a Ruini (il cardinale che come capo della conferenza episcopale italiana è stato tra i volti più esposti della Chiesa di allora) costituivano una sorta di “asse del male”.

Nell’estate del 2005 però, ho deciso di ascoltare, lontano dalle grida che andavano per la maggiore, di ascoltare il pensiero del nuovo Papa direttamente dalla sua voce. E c’è un passaggio, nel discorso pronunciato durante la giornata mondiale della gioventù di Colonia, che mi è particolarmente rimasto impresso. Ratzinger parlava della vita di un cristiano e la parola da lui più usata è stata quella di “gioia”. Più volte mi sono chiesto come mai il Papa ha spesso pronunciato quel termine. L’ho capito nel corso degli anni successivi.

Con quelle frasi e quelle parole, Ratzinger ha voluto indicare una via cristiana non costituta soltanto da un insieme di regole da rispettare, come probabilmente arrivato a me e a migliaia delle mia generazione. Ma una via costituita da qualcosa di più profondo. Da un pellegrinaggio o, per meglio dire, da un percorso compiuto a volte ammirando il silenzio, ammirando la meditazione, sentendosi in comunione con tutto ciò che circonda la quotidianità. Un percorso non così diverso da quello compiuto da chi, nauseato dalla superficialità della vita di oggi, si rifugia nelle tradizioni orientali e prova a dare un senso alla carenza di valori ricavando conforto dalle nobili arti oratorie provenienti dall’Asia.

Ho un’amica sbattezzata e profondamente anti clericale, fervente praticante di yoga, con cui vado molto d’accordo e a cui dico spesso che l’amicizia nostra è nata grazie al fatto che pensiamo esattamente le stesse cose. Semplicemente, lei ha cambiato parrocchia, io ho scelto di cercare risposte nella Chiesa in cui sono stato battezzato. Vale per me, così come per tanti giovani che hanno vissuto l’adolescenza nel momento della salita al soglio petrino di Joseph Ratzinger.

La morte di Benedetto XVI potrebbe portare adesso a una migliore rivalutazione della sua figura. La quale in vita purtroppo è stata ostaggio sia dei suoi estimatori che dei suoi detrattori, entrambi pronti a catalogarlo come un mero conservatore. Il pensiero di Ratzinger in realtà andrebbe ascoltato di più. Nel suo elogio della gioia, nel suo tenere in considerazione una parte significativa del pensiero illuminista, nella sua ricerca di dialogo con l’Islam e con quello laico, ci sono probabilmente le risposte che lo stesso occidente fra qualche decennio sarà costretto da qualche parte a cercare. Quando, davanti a una società bloccata dalle sue certezze, ci si troverà davanti la necessità di coniugare il secolarismo con la consapevolezza di come l’uomo, senza proiettarsi verso qualcosa di trascendentale, rischierà di non essere più umano.