Su una cosa in Italia sembrano essere tutti d’accordo: c’è la necessità di attuare riforme, specie di rango costituzionale. L’attuale impalcatura istituzionale appare poco consona alle esigenze del Paese, ancora oggi troppo esposto all’instabilità politica e a una conta del numero dei governi mai ridimensionata nemmeno dopo l’avvento della cosiddetta “seconda repubblica”. Il dito viene spesso puntato sulla mancanza di effettivo potere in mano all’esecutivo. Il presidente del consiglio è sì a capo del governo, ma la sua è un’attività di indirizzo e coordinamento.
“Dopo la seconda guerra mondiale – dichiarava Indo Montanelli negli anni ’90, quando già si parlava di riforme – i tedeschi intuirono che il nazismo era salito al potere per via delle conseguenze della Repubblica di Weimar, ossia dell’incapacità di governare da parte dell’esecutivo. Per questo nella nuova costituzione hanno optato per un cancellierato forte. In Italia invece al fascismo si è risposto applicando l’esatto opposto, ossia un esecutivo senza poteri. Di fatto si è risposto proponendo il modello di Weimar”.
Il nostro, si sa, è un Paese strano. Per cui nonostante una generale condivisione della necessità di riformare la costituzione, nessuno poi è mai riuscito a metterci mano. Tutti i vari tentativi sono falliti. È fallito il tentativo della bicamerale di fine anni ’90, poi è fallito il tentativo di Berlusconi con la cosiddetta devolution nel 2005, infine è fallito il tentativo di Renzi nel 2016. Potere esecutivo debole e bicameralismo perfetto sono ancora cardini dell’impalcatura istituzionale nostrana.
Adesso è il turno del tentativo di Giorgia Meloni. L’attuale presidente del consiglio ha proposto il cosiddetto premierato, ossia l’elezione diretta del capo dell’esecutivo e l’impossibilità per le camere di cambiare il colore della maggioranza. La riforma assomiglia molto a un ibrido uscito fuori da un delicato tentativo di compromesso: Meloni voleva il presidenzialismo, con quindi il presidente della Repubblica eletto direttamente e a capo dell’esecutivo, ma questo avrebbe snaturato e di molto la costituzione. Da qui l’idea di rendere elettiva la carica di presidente del consiglio, conservando l’attuale ruolo del capo dello Stato.
Ma anche questo tentativo probabilmente andrà a vuoto. E il perché è scritto proprio nel compromesso sopra descritto: si sta provando, dalle parti del centrodestra, a salvare il proprio tentativo di riforma e si approveranno le modifiche a colpi di maggioranza in parlamento. Sarà quindi la volta del referendum, obbligatorio quando le riforme costituzionali non avvengono senza il via libera di almeno i due terzi delle camere, e il referendum ha già cestinato i tentativi di Berlusconi e Renzi.
Al di là dei contenuti della riforma meloniana, il vero nodo della questione sta nel modus operandi: riforme così importanti non dovrebbero essere figlie di accordi della maggioranza o di compromessi tra i partiti ma, al contrario, dovrebbero riguardare un ventaglio di argomenti da affrontare in modo corale. Ma sia il centrodestra che il centrosinistra, quando hanno portato avanti le “loro” riforme, hanno fatto delle leggi costituzionali una questione di bandiera. Trasformando il confronto nel consueto dibattito politico, dove poi a imperversare è la scure della divisione ideologica e settaria.
E così, i tentativi di riforma si sono spesso trasformati in passato in prove di forza personali. Oggi il rischio è il medesimo: Meloni ha parlato della modifica costituzionale come della madre di tutte le riforme, da approvare quindi in parlamento procedendo unicamente con la propria maggioranza ed esponendosi alla scure referendaria. La colpa non è soltanto della attuale premier. In Italia, chi è al governo dice a priori di sì e chi è all’opposizione dice a priori di no. Per cui, dai partiti avversari della Meloni non sembra arrivare chissà quale collaborazione.
Anche perché, a destra come a sinistra, nessuno sembra avere le competenze tali da condurre in porto una riforma così delicata. Si procederà quindi anche stavolta con il consueto iter parlamentare e poi la cesoia del referendum. Con l’Italia che perderà probabilmente un’occasione per riformare sé stessa. Se le modifiche dovessero infatti passare, allora ci si troverà davanti a una riforma a tratti poco chiara e, come detto, figlia di un compromesso politico. Se non dovessero passare, nessuno penserà a proporre altre riforme per almeno un decennio.
Comunque vada, l’Italia si ritroverà davanti a una drammatica realtà: l’attuale classe politica non è in grado di riformare il Paese. Il quale probabilmente è destinato a perdere in chiacchiere altro tempo prezioso.