Un abbaglio chiamato Ucraina

Dopo mesi di intense trattative tra i due blocchi sul ridisegnamento dell’architettura securitaria europea, protagonizzate da un lungimirante Emmanuel Macron, lo scenario più cupo e remoto è divenuto realtà ineluttabile: la Federazione russa, causa il fallimento della via negoziale, ha dichiarato guerra all’Ucraina.

Le prime reazioni sono già arrivate: il Nord Stream 2 è stato spento a tempo indefinito, un nuovo ciclo di sanzioni da parte dell’Occidente e dei suoi alleati – come il Giappone – è stato approvato e applicato in tempi record, in sede di Alleanza Atlantica si discute di potenziare il fronte orientale e in sede di Unione Europea è crollato il fronte della distensione. Tutto terribilmente prevedibile, tutto come da copione: il copione scritto dall’amministrazione Biden, che spingendo la presidenza Putin all’esasperazione, chiudendo la porta a ogni trattativa – anche sui punti obiettivamente negoziabili –, ha ottenuto di far scoppiare una guerra carica di potenziali rischi per il Cremlino.

I calcoli di Biden

Gli ucraini, e non solo loro, guarderanno a questa invasione nello stesso modo in cui gli ungheresi guardano alla Rivoluzione del 1956. Non è fantapolitica: è un dato di fatto. Ma è anche vero che al Cremlino, messo alle spalle al muro dall’espansione dell’Alleanza Atlantica e rimasto inascoltato dalla Casa Bianca, non era stata data altra possibilità: una «guerra preventiva» all’americana per azzerare il rischio di un’Ucraina integrata nell’architettura securitaria euroatlantica.

Sta accadendo esattamente ciò che aveva prospettato la presidenza Biden al momento di benedire la linea dell’intransigenza: una reazione iper-muscolare da parte della Russia, frutto di esasperazione e provocazioni, utile a far applicare all’Unione Europea delle sanzioni altrimenti irricevibili e a fratturare, nel medio-lungo periodo, lo spazio postsovietico. Un rischio calcolato, madido di logica machiavellica, mosso da una mentalità levantina e incardinato su uno schema tanto antirusso quanto antieuropeo, al quale soltanto il tempo darà ragione o torto.

Macron aveva intuito sin dai primordi le implicazioni della trappola orchestrata dall’amministrazione Biden, e con largo anticipo sugli omologhi europei, perciò aveva protagonizzato il panorama negoziale, cercando di interporsi quale mediatore tra Cremlino e Casa Bianca, e popolarizzato con audacia e acume l’idea di «finlandizzare» l’Ucraina. Tutto vano: impossibile ottenere concessioni da Biden.

I rischi di Putin

Lo avevamo già scritto ne “La guerra fredda infinita” e ne “La crisi in Ucraina e la fine del sogno della Grande Eurasia” che questa guerra non è fine a se stessa, cioè che l’Ucraina è il dito ma non la Luna, e che è da inquadrare nel più ampio contesto della negoziazione di una nuova Jalta e della transizione multipolare.

Il punto, oggi come ieri, è ed era il seguente: gli Stati Uniti vogliono una nuova Jalta? Gli Stati Uniti sono a favore della transizione da un uni-multipolarismo occidentalo-centrico a un multipolarismo integrale? Al momento, fatti alla mano, sembra di no. Sembra che tra Pentagono e Casa Bianca continui a prevalere la linea Brzezinski, quella dell’«arco di instabilità» in Eurasia, e che non si desideri considerare, neanche lontanamente, la possibilità di una nuova diplomazia triangolare alla Kissinger.

Speranza-aspettativa di Biden è che l’intervento in Ucraina abbia come esito il rafforzamento dell’Occidente, a mezzo del congelamento di ogni prospettiva di normalizzazione tra Unione Europea e Russia e di una possibile adesione all’Alleanza Atlantica di nuovi membri – come la Finlandia –, e l’indebolimento della russosfera nel medio e lungo termine. Perché il Cremlino con questa guerra emblematizza scenograficamente un ritorno all’età della sovranità limitata che non potrà non avere conseguenze nel resto dello spazio postsovietico, da Minsk a Nur-Sultan, passando per Tbilisi e Baku, ed è su quella russofobia (già oggi) serpeggiante che proverà a lavorare la Casa Bianca: agire nel basso per sovvertire l’alto, o magari soltanto per diffondere dell’altrettanto utile «anarchia produttiva».

Ultimo, ma non meno importante, Biden ha costretto Putin ad aggredire una nazione, l’Ucraina, che l’opinione pubblica domestica non ha mai percepito come realmente nemica, ben differenziando tra regime politico e popolo, e in difesa della quale sta già dimostrando per le strade. Più di 1.700 arresti soltanto il 24, primo giorno delle ostilità, causa le proteste scoppiate nelle principali città della Federazione. La calma prevarrà, perché l’Ucraina non riuscirà laddove non ha avuto successo Aleksei Navalny, ma le ferite rimarranno sia tra la gente comune sia nelle stanze dei bottoni.

Il Cremlino ha un solo modo per evitare che la vittoria tattica si trasformi in una sconfitta strategica: fare nello spazio postsovietico ciò che gli Stati Uniti hanno fatto in Europa occidentale nel secondo dopoguerra, ovverosia dare luogo ad un do ut des basato su un’«asimmetria sostenibile». Calibrare intelligentemente pretese e concessioni: sovranità in cambio di benessere. Egemonia benevola anziché predatoria. E un punto di partenza potrebbe essere sicuramente rappresentato dall’Unione Economica Eurasiatica.